14 agosto. A Montebello di Bertona, piccolo centro sulle colline dell’entroterra abruzzese, all’interno del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, si svolge il Day 3 del Rock Your Head Festival. Qui, nelle ore diurne ci si può sollazzare con attività  culturali e ricreative a stretto contatto con la natura o semplicemente godere del suggestivo panorama respirando aria incontaminata. La sera, non appena sul palco accedono le band, nazionali e non, approdate di recente nello scenario indie rock, synth ed elettro pop, ci si ricompone momentaneamente.

Come headliner della serata vanno in scena gli Yak da Wolverhampton, ancora sconosciuti ai più. Salgono sul palco in tarda serata quando giá il pubblico sembra diradarsi. Piccoli problemi tecnici, durante il quale i tre giovanissimi musicisti più volte entrano ed escono di scena, rallentano ulteriormente l’esibizione di una quindicina di minuti.
Nel frattempo gli effetti delay e fuzz, che si protrarranno per tutta la durata del live, li introducono poderosamente al gentil pubblico. Poi l’attacco di chitarra, basso e batteria: uno schiaffo in fronte. Con buona grazie dei presenti, dalla serie di casse laterali si sprigiona un vortice d’aria causato dai volumi piuttosto alti. anch’esso sarà  una costante dell’intero concerto.

Di base c’è una forte influenza grunge nell’atteggiamento dei musicisti. I capelli che coprono il volto del leader Oliver Burslem e il modo di percuotere la batteria di Rawson confermano che gli Yak hanno ascoltato e studiato non poco i Nirvana. Poi chiaramente il suono si è plasmato a colpi di psychedelic rock e garage rendendo i pezzi un pelo più attuali.
Per un’ora e un quarto i tre sono micidiali e tengono il palco come autentiche vacche sacre del rock, frustando il pubblico in maniera indolore. Tra Stratocaster e Rickenbacker, spesso l’una di fronte all’altro, a bordo palco avviene un duello in termini di potenza. Ma la sostanziale omogeneità  dei pezzi e la quasi totale mancanza di melodia rendono gravosa la distinzione dei brani in scaletta.

Naturalmente tengono piede i singoli freschi di estrazione: “Harbour The Feeling” è sicuramente tra i quotati. Il trio apre maggiormente a sonorità  meno rigide raccogliendo persino una sottile linea melodica. La chitarra in apertura non inventa nulla ma dà  comunque un segnale positivo a chi si aspetta una formazione di classic rock di ultima generazione. “Victorious (National Anthem)” è un uragano di 2:05 che riesuma pienamente il punk di prima mano e lo sbatte in faccia quasi ipocritamente. “Use Somebody” è nettare dei Black Rebel ai quali rendono esplicito omaggio. La voce di Oliver è profonda e instancabile. In “Hungry Heart” è un urlatore incazzato al pari di Pelle Almqvist degli Hives e con timbro vocale simile a Björn Dixgà¥rd dei Mando Diao per citarne uno.

Nella seconda parte, il disco rallenta parzialmente l’andatura. La geniale ballata arriva proprio a metà  percorso ed è tutta in contro tempo. Si chiama “Take It”, ha in apertura un riff affascinante, nel mezzo archi dai contorni quasi fiabeschi e un finale selvaggio, confusionario e piacevolmente inquietante. Smile è rock’n’roll fatto nel migliore dei modi. Qui Burslem, che già  impersona esteticamente un giovane Jagger, si impossessa anche della voce del capo Stones. “Please Don’t Wait For Me” è l’ultimo appuntamento ed è una sorta di rivelazione. Una ninna nanna agrodolce di quasi otto minuti il quale featuring sembra opera di Casablancas. In alcuni punti è celestiale con la sola voce accompagnata da un’ acustica. In altri la tempesta elettrica arriva e spazza via tutto. In poche parole l’inaspettato.