Sono irlandesi del Nord dal suono internazionale. Sono Alex Trimble, Sam Halliday e Kevin Baird, creatori ispirati di un elettronico indie rock che ha le mani sul sintetizzatore del futuro ma le orecchie piene di alt-rock e alt-pop del passato: sono i Two Door Cinema Club, e speravamo di poter parlare così del loro terzo album “Gameshow”.
Invece, possiamo limitare questa descrizione solo ai due lavori precedenti (“Tourist History” e soprattutto “Beacon”), forse stilisticamente molto simili ma decisamente riusciti ed efficaci.

Ed eccoci ora schiantati contro il loro terzo cd, frutto di un ritrovato connubio di intenti dopo una separazione provvisoria: si riaccende la fiamma creativa che si fa miccia di una decisa esplosione Anni Ottanta. Un mood che sguazza fiero e indisturbato in tutto l’album, rendendolo forse straniante e innovativo ma non convincente. Lo stile della band è rivoluzionato, attratto dalla disco music in modo evidente: è altro da quello che ci si aspettava sulla base dei lavori precedenti, e probabilmente le aspettative ““ molto alte ““ fanno fatica a dirsi soddisfatte o piacevolmente sorprese.
Il mulinello della disco è così: o se ne emerge trionfanti per aver mantenuto dei giusti equilibri (vedere alla voce Daft Punk) o esserne sopraffatti.
E, ahimè I Two Door Cinema Club restano a galla faticosamente, grazie a qualche boccata di ossigeno come “Are we ready? (Wreck)”, “Lavender” o “Gameshow”, che ancora conservano tracce dello stile originario del gruppo, o sperimentazioni vincenti (le trombe ad esempio). Tossicchiano in falsetto nella maggior parte degli altri pezzi,cercando una strada originale che si rivela più deleteria e asettica che altro: “Ordinary” rispecchia il suo titolo, “Fever” ci evoca paurosamente e fastidiosamente John Travolta, “Invincible”, “Good Morning” o “Surgery” trascinano con sè un senso di inadeguatezza e insoddisfazione., mentre “Je viens de là ” è semplicemente fastidiosa.

Il disco non è brutto e neppure fatto male, ma forse sbagliato: ha riversato un barattolo intero di brillantina su dei frizzanti riccioli rossi, rendendoli sì immacolatamente strutturati e definiti, ma svuotandone il malessere selvaggio, il moto di spirito originario. Nelle 15 nuove canzoni (di cui 5 bonus track, con un live e due remix) le sperimentazioni sonore e le ricerche timbriche e ritmiche si sentono, i testi non sono ammassi di banalità , ma restano intrisi di pensieri alla radice interessanti: ed è proprio questo che fa rabbia.
“Gameshow” poteva essere un veliero con il vento in poppa, ma è diventato una nave da crociera dove resti fermo, incolume ma pervaso da un senso leggero di nausea. Per citarli, il disco è il porto di una serie di “Bad decisions”. Peccato.