LEGGI LA CLASSIFICA DI INDIEFORBUNNIES DEI MIGLIORI 50 DISCHI DEL 2016: posizioni #50 -> #26 / posizioni #25 -> #1

#10) MOTTA
La Fine Dei Vent’anni

[Woodworm]

“La fine dei vent’anni” di Francesco Motta è una trappola perfettamente congegnata. C’è un meccanismo di immedesimazione dal quale è difficile affrancarsi, c’è una chitarra semplice e limpida che funziona troppo bene per non rimanerti attaccata addosso. L’autore l’ha definito in parte un album politico. E lo è. Soprattutto nella misura in cui capisce che è (anche) una specifica condizione socio-economica ad aver formato la dimensione sentimentale di questa generazione.

 

#9) DAUGHTER
Not to disappear
[4AD]

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“Not to Disappear” dei Daughter porta a maturazione la consapevolezza che il battito del cuore sia prima di tutto un ritmo di percussione. Dopo la delicatezza un po’ sottotono di “If You Leave”, il secondo album del trio britannico ritrova l’energia e il carattere dei primi EP come “Home” e “Candle”. Non sempre la solitudine ha il suono di un lamento.

 

#8) FLUME
Skin
[Future Classic / Transgressive / Mom + Pop]

Classe 1991, il producer australiano Harley Edward Streten, aka Flume, in due anni è passato dall’essere un “feat” ad avere un nome che si regge sulle proprie gambe. Come la pelle del titolo, il suo ultimo full lenght “Skin” rimane in superficie. Ma chi dice che non si trovi anche lì il senso delle cose? Un electropop di una leggerezza squisita.

 

#7) JAMES BLAKE
The colour in anything

[Polydor]

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Di James Blake possiamo ormai dire questo: è una certezza. “The Colour in Anything” si distingue dai lavori precedenti per una tenuità  sfumata che è propria degli acquarelli. Talvolta, non importa distinguere le forme.

 

#6) FRANK OCEAN
Blonde
[Boys Don’t Cry]

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è stato a lungo atteso e ora sappiamo perchè. Diciassette brani così non possono uscire ogni anno. Un album incoerente nel migliore dei sensi possibili: mai uguale a se stesso, caleidoscopico, multiforme. In mezzo ai frammenti, come distingui fra apparenza e sostanza (“Facebook Story”, “Nikes”, “White Ferrari”)?

 

#5) LEONARD COHEN / DAVID BOWIE
You want it darker / Blackstar

[Columbia Records] / [Sony Music]

David Bowie e Leonard Cohen, diciamocelo pure, saranno ricordati nella storia musicale con ruoli e ordini di grandezza assai differenti. Se ne sono però andati allo stesso modo: qualche giorno dopo averci lasciato un ultimo grande album, come a ricordarci la perfetta coincidenza di musica e vita. Non sembra un caso allora che “Blackstar” e “You Want It Darker” abbiano in comune esclusivamente questo: il senso di compiutezza pieno e serafico di chi ha fatto tutto quello che doveva fare, prima di dire addio.

 

#4) ANOHNI
Hopelessness

[Secretly Canadian]

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Prima di “HOPELESSNESS” non ho mai pensato che un album di protesta civile potesse essere doloroso. Anohni mi ha insegnato che si può cantare della guerra dei droni, del cambiamento climatico, della violenza, dell’amministrazione Obama con uno stile che ha l’intensità  dell’Apocalisse e mai la banalizzazione del patetico.

 

#3) BEYONCE
Lemonade
[Parkwood / Columbia]

“E alla fine che cosa dirai al mio funerale, ora che mi hai ucciso? Giace qui l’amore della mia vita, a cui ho spezzato il cuore senza che niente mi costringesse”. Sarebbe limitativo considerare Lemonade uno degli album migliore dell’anno, perchè è molto di più: un film, un romanzo, una raccolta di poesie. Davanti a questo, l’autenticità  autobiografica – Jay-Z ha davvero tradito Queen B? ““ sembra questione davvero irrilevante.
Per capire la varietà  dei generi, bastino i titoli di coda: James Blake, Jack White, The Weeknd, Kendrick Lamar. Può bastare?

 

#2) RADIOHEAD
A moon shaped pool
[XL]

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Per molti aspetti, “A Moon Shaped Pool” verrà  ricordato come uno dei lavori meno sperimentali dei Radiohead. Ed è forse proprio questo a renderlo un album immediatamente accogliente e allo stesso tempo capace di una tristezza nuda e disarmante. Suona come tutte le tue vite passate quando tornano a farti visita.

Una band che non ha più nulla da dimostrare.
P.S. Però, una volta per tutte: true love doesn’t wait. Lì hanno cercato di fregarci.

 

#1) BON IVER
22, A Million
[Jagjaguwar]

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Ho sempre pensato alla musica di Bon Iver come a una domanda: quanto a lungo puoi resistere finchè dura l’inverno? “22, A Million” è il gospel 2.0, confuso di suoni metallici, loop elettronici, lettere e numeri enigmatici e incomprensibili. Del resto, non puoi avvicinare il Mistero con linguaggio umano. Nemmeno se è qui sulla terra.

La musica di Justin Vernon ha ancora l’intensità  struggente di “un posto freddo affamato di calore” (“Shotgun Lovesongs”, Nickolas Butler) e questo è un album bellissimo.