Il 21 maggio 1997 usciva un album destinato a cambiare il corso della musica rock contemporanea: “Ok Computerdei Radiohead.
20 anni sono trascorsi ma la bellezza, la meraviglia, il candore e lo stupore ancora ci pervadono quando ci ritroviamo a rimettere in fila quei brani. Un disco che ha mantenuto intatto tutto il suo valore, risultando di primaria importanza non solo per aver segnato un’epoca e influenzato varie band, ma pure per aver proiettato il rock in un’altra dimensione. Così diverso dai precedenti incisi da Thom Yorke e soci, ha di fatto chiuso il millennio musicale, anticipandone la fine di tre anni e portando l’ascoltatore dritto negli anni zero.

Un disco che sin dalle prime battute, direi sin dall’episodio “Lucky”, precedentemente uscito in una compilation curata da Brian Eno (“The Help Album”), mostra infatti un’evoluzione netta, tranciante da parte del gruppo, non solo a livello puramente musicale, ma proprio di atteggiamento, di linguaggio, di comunicazione. Un’indole che verrà  rimarcata e portata all’estremo con il successivo lavoro, “Kid A, del 2000, al cui primo ascolto si faticava a riconoscere i Nostri. Ma i prodromi di un cambiamento evidente si diceva sono ben visibili anche tra i solchi delle 11 tracce che compongono “Ok Computer”. Siamo dalle parti di un alternative rock sapientemente miscelato all’elettronica, ma sarebbe ingeneroso ridurre il giudizio a una mera ed effimera etichetta. Anche perchè si tratta di uno di quei rari casi per cui la critica specializzata fu unanime nel definirlo un capolavoro e a coglierne “in diretta” il significato, l’importanza che avrebbe avuto negli anni a venire, l’influenza che avrebbe esercitato.

Prima di allora i Radiohead erano “solo” un’ottima guitar band, il cui timbro vocale, l’interpretazione viscerale ed intensa del leader Yorke e le liriche pregne di esistenzialismo tardo adolescenziale la facevano comunque elevare e distinguere dalle tante altre contemporanee inserite nel filone britpop (in cui almeno fino a quest’album potevano rientrare di diritto anche loro, vista la provenienza e la matrice musicale). Il successo aveva già  arriso loro, e non erano più da tempo “quelli di Creep”, ma lo stesso in seno al gruppo al termine del tour di “The Bends cominciava ad aleggiare una sorta di stanchezza, una voglia di novità , di affrancarsi da un modello e da uno stile che li aveva portati alla fama e al successo ma che ora sentivano stretto. Decisero di comune accordo di cambiare rotta, di spaziare, di aprirsi affrontando temi universali dopo aver già  sviscerato in abbondanza i propri conflitti interiori. E lo fecero forti di un credito ormai ottenuto sul campo, partendo da una scelta importante: quella di autoprodursi, con la casa discografica comunque dalla loro, sin dal fatto che non diedero scadenze di consegna del disco nuovo.
La lavorazione al brano “Lucky”, onirico, sognante e con aperture alla David Gilmour, aveva già  avuto modo alla band di collaborare più da vicino con Nigel Godrich (che già  ai tempi di “The Bends” aveva assistito John Leckie nella produzione del disco) e di riscontrare quanto quest’ultimo fosse simile a loro nella “visione” di un percorso ancora tutto da scrivere. Quindi Godrich divenne una sorta di sesto membro, pur rimanendo in una posizione esterna, in grado cioè di mediare nei momenti di tensione o anche più prosaicamente di prendere decisioni quando venisse a mancare il concetto di “maggioranza”, in merito a un arrangiamento, un suono, per quanto fosse innegabile che all’interno di quella democrazia chiamata Radiohead vi fosse Thom Yorke a fungere da faro, da guida. Ne nasce un lavoro composito, fluido, difficilmente catalogabile, coerente nella sua disomogeneità , spiazzante, etereo, pop e rock, elettronico e indie, in grado di sfuggire alle etichette, di rifuggire mode e trend e soprattutto con i crismi del “classico”.

La prima traccia “Airbag” parte con i ruggiti e i reverberi delle chitarre di Ed “‘O Brien e Jonny Greenwood, che suonano quasi minacciose ma che invece fanno da preludio al cantato melodico eppure dolente di Thom Yorke, per un brano dai forti connotati autobiografici (uno degli ultimi rimandi a “The Bends”, quando la componente personale la faceva da padrone nei testi). La successiva “Paranoid Android” scelta come singolo anticipatore del disco, aveva già  colpito nell’immaginario, e non solo grazie a un video animato assolutamente indimenticabile, ma per la forza delle immagini evocate e per la magnifica musica partorita dai Nostri. Una specie di suite, in cui in pratica si intersecano 3 canzoni, 3 atmosfere diverse in una, e che mostrano un eclettismo inedito della band. In questo caso non stride il paragone con i Pink Floyd, dai quali i Radiohead sembrano in grado di cogliere l’eredità  artistica come pure l’integrità  e il fatto di non cedere a lusinghe commerciali, anteponendo sempre (e lo dimostreranno sempre di più, di album in album, a partire dalla doppietta “Kid A/Amnesiac) prima di tutto la libertà  artistica. Spettacolari le chitarre di Jonny Greenwood, più elaborate rispetto ai tempi di “Creep” o “Just”. Il più piccolo dei fratelli Greenwood da questo album in poi diventerà  musicista che saprà  ampliare a dismisura i suoi talenti soprattutto in fase di arrangiamento e composizione, mettendo di contro in secondo piano il suo strumento principe.

“Subterranean Homesick Alien” è un’altra traccia che lascia stupiti per come i ragazzi, quasi tutti under 30, siano maturati, cresciuti, in grado di confezionare un brano lunare, psichedelico, in cui spicca il basso sognante di Colin Greenwood. I successivi due brani rappresentano due facce della stessa medaglia, sono come la luna e il sole (e mi piace paragonare questa loro sequenza a quella che si ritrova nell’album “Out of Time dei R.E.M., loro mentori e amici, quando si ascolta prima “Low” e poi “Near Wild Heaven”). Infatti quanto è cupa, scura, malinconica e tragica “Exit Music (For a Film)”, tanto armoniosa, solare, ultra pop è la successiva “Let Down”. Sono due brani cardini del disco, ancora amatissimi dai fan, specie il primo, inserito nei titoli di coda del film Romeo + Juliet, una ballata alla Radiohead dai toni scabrosi e che rifacendosi alle scene ultime del celebre film di Baz Luhrmann parla di suicidio, con un testo sublime, fra i migliori scritti da Yorke.

Struggente e commovente “Exit Music”, una botta nello stomaco, compensata dagli accordi in maggiore e dall’incedere pop di “Let Down”, che affonda le radici nei Beatles, anche se a me piace associarla a qualche episodio dei Beach Boys. Per il testo Yorke sembra quasi essersi rifatto alla tecnica del Cut-Up ma in realtà  le parole coincidono con la frenesia e la velocità  dei nostri tempi che sembra comunicare la musica. “Karma Police”, secondo singolo della raccolta, è forse la canzone più lineare a livello musicale del disco, non fosse per l’inatteso finale a suon di sintetizzatori e campionatori a fare a pezzetti la splendida melodia sognante che pervade tutto il pezzo. E’ un brano paradossale, in cui Yorke si lascia andare a tutta una serie di immagini bizzarre per sottolineare il senso di inadeguatezza che culmina nel verso “For a minute there I lost myself“. Musicalmente è una dolce ballata, in cui a farla da padrone, oltre alla voce angelica del cantante, è il pianoforte, A chiudere la prima facciata (non ridete, quando uscì, io avevo anche la cassetta!) in coda a “Karma Police” una voce metallica esegue “Fitter Happier”, un brano che funge da “ghost-track”, abitudine in voga in quegli anni, di solito alla fine di un disco e non accreditata, ma tant’è, che poi, alla fine del primo ascolto, ricordo che quasi sbigottito esclamai “ma che cavolo hanno questi per la testa?” (forse usando toni più coloriti). Si tratta di un esperimento musicale della band, che sempre di più si ritrovava in studio a maneggiare con computer, tastiere e varia strumentazione poco convenzionale. Un’eccezione che diventerà  però poi “metodo” con i dischi successivi, quando l’input dato ai membri da parte di Godrich e Yorke fu quello di ribaltare, destrutturare il concetto stesso di canzone, di melodia e di partire da suoni, da loop, da idee. Ma questa è un’altra storia che avremmo piacere di raccontare, a Dio piacendo, fra 3 anni quando cadrà  il ventennale del fragoroso seguito di Ok Computer”.

La seconda facciata regala momenti forse meno epici, almeno per il sottoscritto, ma sempre mantenendo altissima l’asticella della qualità . “Electioneering” rimette in primo piano le chitarre, stavolta taglienti e feroci, e la batteria di Phil Selway, per un’invettiva in piena regola contro i politici del suo Paese (ma potrebbe valere per i politici di TUTTI i Paesi). A sparigliare di nuovo le carte all’ascoltatore ci pensa “Climbing Up The Walls”, pezzo art rock nel senso più ampio del termine, che coniuga rock e ambient, linee melodiche e suoni distorti, abrasivi, eppure cadenzati, in particolare all’inizio. A fare da trait d’union fra queste anime così apparentemente distanti, è quel senso di oppressione, di tensione che riveste l’intera canzone. Ancora una volta gli stessi Radiohead ci vengono poi in soccorso affiancando a un brano ispido e claustrofobico come “Climbing”, quel gioiellino di “No Surprises”, introdotto dallo xilofono di Jonny Greenwood che conferisce toni fiabeschi all’intero episodio. Una nenia dolcissima, languida, ma non per questo rassicurante, che racchiude in meno di 4 minuti la magia di cui sono capaci i Radiohead.

“Lucky” e “The Tourist” (quest’ultima scritta da Jonny Greenwood) chiudono il disco come meglio non si potrebbe, cullandoci dolcemente, facendoci immaginare scenari sconfinati, gli stessi che sembravano già  al tempo evocare Yorke e soci. Un preludio a ciò che sarebbe giunto con gli album immediatamente successivi. Ma se nella conclusiva traccia, una della composizioni più raffinate ed eseguita praticamente in ogni live, questa voglia di spingersi oltre anche musicalmente aveva ancora radici ben salde in quello che era stato comunque il percorso fatto fino ad allora dalla band, nel nuovo millennio sembrò quasi che volessero scomparire dallo star system (e un titolo emblematico in tal senso comparirà  proprio in “Kid A”), rifuggire ogni clichè, reinventarsi e rimettersi in gioco anche rischiando (come in alcuni casi è successo) di perdere il seguito dei fan della prim’ora.

Proprio per questo, a distanza di 20 anni, “Ok Computer” rimane la testimonianza più fulgida e fedele del genio creativo e della grandezza dei Radiohead, nell’aver saputo far coesistere al meglio istanze pop ed elettronica, passato e futuro, classicità  e modernità , in un concentrato unico e ineguagliabile.

Pubblicazione: 21 maggio 1997
Durata: 53:26
Dischi: 1
Tracce: 11
Genere: Rock alternativo, Art rock
Etichetta: Parlophone
Produttore: Nigel Godrich, Radiohead

Tracklist:
1. Airbag
2. Paranoid Android
3. Subterranean Homesick Alien
4. Exit Music (For a Film)
5. Let Down
6. Karma Police
7. Fitter Happier
8. Electioneering
9. Climbing Up the Walls
10. No Surprises
11. Lucky
12. The Tourist