Un viaggio dalla Norvegia, terra natia, a Dalston, nella parte est di Londra. Un altro, verso il Nord Corea e il Vietnam. Poi l’Amazzonia. E infine il ritorno a casa, a Bergen. Susanne Sundfør, trentatrè anni, approda con il sesto album, “Music for People in Trouble”, alla Bella Union, etichetta discografica fondata nel 1997 da Simon Raymonde e Robin Guthrie, e lo fa stabilendo una rottura necessaria con il passato, a partire dal suono: il sapore electro-pop anni ’80, che aveva contraddistinto il disco precedente, Ten Love Songs, viene qui prosciugato, ed è la stessa cantante, con alle spalle un periodo di depressione, ad affermare che la ricerca della canzone pop, quella all’Adele, le ha portato affanno. Susanne non abita più quella pelle, quella forma, così elettronica e sintetica.

In “Music for People in Trouble” la cantante norvegese si chiude in un guscio, si nasconde (la maggior parte delle canzoni vengono scritte in camera, sul letto) e si muove con delicatezza, fuggendo dai rumori ““ della critica, del successo (in Norvegia è una star), delle collaborazioni importanti (con Röyksopp, sua connazionale, e con gli M83 per la colonna sonora di Oblivion) ““ per abbracciare uno chamber-pop più intimo, più doloroso, che guarda dritto al primo Scott Walker (la Sundfør ha recentemente omaggiato il cantante in uno speciale della BBC, insieme a Jarvis Cocker, John Grant e Richard Hawley).

è un arpeggio di chitarra, che forse non ci aspettiamo, ad aprire l’album (“Mantra”). Susanne prova un senso di irrilevanza, di casualità  (I’m as empty as the Earth / An insignificant birth / Stardust in a universe / That is all that i am worth); si interroga sulla rinascita dell’anima (“Reincarnation”) e sull’amore (“Good Luck Bad Luck”), in una prospettiva universale che parte dall’esperienza individuale (Says most of the universe is empty and gods don’t exist / Well maybe that’s where our love ends up). Poi la voce, accompagnata dal pianoforte, si ferma ““ come se la parola si fermasse lì dove la realtà  diventa fuggevole ““ e lascia spazio, in coda, al suono minaccioso e perturbante del sassofono e del contrabbasso. “The Sound of War” rievoca alcuni numi tutelari della cantante, più di tutti Leonard Cohen e Nick Drake, in quei giri di chitarra così eleganti e fuori dal tempo. La traccia si apre sul canto di una natura ancestrale (il cinguettio degli uccelli, lo scroscio dell’acqua), non (ancora) corrotta dall’uomo. A metà , tuttavia, la calma viene soppiantata da un suono duro, stridulo, che pone fine alla quiete.

Un tema, quello di un contatto più diretto con la natura, che viene ripreso nella traccia successiva, “Bedtime Story”: la voce del suo amico naturista Andres Roberts accompagna una base ruvida, metallica, che strizza l’occhio a “Threnody to the victim of Hiroshima” di Krzysztof Penderecki, composizione musicale riportata in auge recentemente da David Lynch, nell’ottavo episodio di Twin Peaks: The Return. Seguono “Undercover” e “No One Believes In Love Anymore”, due ballate per pianoforte in cui Susanne si lecca le ferite d’amore, ancora aperte (They’ll kiss you in the evening, devils in disguise and / Love you till the morning then vanish before your eyes) e manda un grido disperato d’aiuto affinchè qualcuno possa guarirla (I wish I had a lover, someone who wouldn’t bother / To tell me what to feel, to tell me what is real).

La vera rivoluzione, però, arriva in chiusura. “Mountaineers” è un duetto con John Grant, la metà  mancante di Susanne. La voce baritonale del cantante americano sembra uscire dalle viscere della terra sino a incontrare la voce di lei, fiabesca e magica, uno squarcio di luce che (la) porta altrove, fino ad arrivare alla catarsi finale, al risveglio (Now I know, we’ll never be what you need, no / What we are, what we want, it will never change). Ritorna l’organo, insieme a un coro caricato, gospel, quasi a volerci dire che forse Susanne sta già  cambiando pelle.
Non ci resta che aspettare, impazienti, la prossima trasformazione.