Perchè Jake Bugg non abbia mantenuto tutte le premesse di quel clamoroso primo disco (datato ormai 2012) resta un mistero. Quel menestrello di Nottingham sembrava aver trovato una formula vincente, capace di mettere in luce la sua sfrontatezza britannica ma anche il massimo rispetto per i classici del passato folk-rock, Dylan su tutti. Già  con il secondo disco si respirava aria poco felice, come se le cose fossero state fatte fin troppo in fretta, mentre nel terzo lavoro dell’anno scorso, “On My One”, c’era fin troppa carne al fuoco, a tal punto che ci si chiedeva quale fosse davvero l’anima e la personalità  di Bugg.

Sta di fatto che in questo disco, complici i profumi di Nashville e la produzione di Dan Auerbach, il ragazzo di Nottingham sembra rimettersi dentro a binari più precisi, ma lo fa in un modo così scolastico e senza mordente che, ancora, ci si domanda dove sia finito il suo fuoco sacro. Mosso da una, crediamo, sincera voglia di portare avanti un sound ben preciso, che omaggi il roots rock e il country, il nostro cura la forma ma non certo la sostanza e ci ritroviamo con brani a tratti imbarazzanti, come lo pseudo calipso di “How Soon The Dawn” che pare roba da cantare in qualche nave da crociera per intrattenere gli astanti che stanno al bar, raccapricciante. Stavolta Bugg mette troppo poco d’inglese sul piatto e si adagia su questo andazzo americano che però non riesce ad abbracciare con il doveroso ardore e la giusta passione, dimostrandosi quasi un “turista musicale” che prova a capire una cultura non sua, riuscendoci solo in modo più che superficiale. Il disco scorre via senza sussulti e meno male che abbiamo un paio di brani azzeccati come “Burn Alone” o la sottilmente inquieta title track, altrimenti ci sarebbe davvero da piangere.

Non sappiamo dove porti quella strada che compare sulla bruttissima copertina, certo non è sicuramente la via giusta verso un disco soddisfacente.

Photo: Drew de F Fawkes / CC BY