Il nuovo album di Flavio Giurato “Le promesse del mondo” giunge a soli due anni da “La scomparsa di Majorana”, fatto quantomeno insolito per un cantautore davvero particolare e che ben poco si è concesso al pubblico nel corso della sua carriera, avviata sul finire dei ’70 e costellata da autentiche gemme, tra tutte il capolavoro “Il Tuffatore” pubblicato nel 1982.

Segno di una ritrovata voglia di metterci la faccia, come sempre seguendo logiche non propriamente commerciali ma piuttosto correndo dietro all’ispirazione, quella pura e autentica.
La stessa che gli ha fatto partorire questo album, cui non stona affatto quel “concept” messo davanti, altre volte invece utilizzato in maniera azzardata se riferita a determinati dischi.

Non è un caso infatti che questi nuovi nove pezzi abbiano l’ambizione di rappresentare in un unico focus letterario (perchè in fondo di brevi brani di letteratura si sta parlando) tutto un sentire sincero su un tema mai come oggi contemporaneo: quello dell’immigrazione, visto da tante differenti prospettive.
Lo stile, da un punto di vista poetico, è quello di un unicum, trovandoci dinnanzi a un flusso narrativo che, partendo dall’iniziale “Soundcheck”, brano che si distingue fortemente però dal punto di vista musicale, con i suoi inserti elettrici così poco consueti fra i suoi dischi, conduce l’ascoltatore lungo una sorta di viaggio, anche spirituale.

E’ un lavoro denso, pieno di significato, un po’ ostico magari, ma d’altronde il cantautore romano non ha mai strizzato l’occhio alle radio e non ha mai improntato melodie da stamparsi in testa a un primo ascolto. Fa la differenza in assoluto con altri cantori della società  d’oggi il modo in cui Flavio Giurato offre il suo canto, così profondo, lacerato, poco rassicurante, specie in episodi quali “Ponte salario” o “I lupi”. Altre volte invece i toni si fanno quasi declamatori e vengono alla mente alcune canzoni dei C.S.I., con l’incedere “ferrettiano” a contraddistinguere ad esempio “Digos”, a mio avviso il picco del disco, sia per lirismo che per intensità  interpretativa. “Ipocrisia”, dove l’arrangiamento oscuro e cupo veste al meglio il testo, è quella con cui amaramente ci si ritrova decisamente a fare i conti. Particolarmente ispirata e diametralmente opposta nei contenuti, con la sua voce di speranza sottesa, è “In mezzo al cammino”, in cui si cita Papa Francesco e riecheggia una spiritualità  che fa da sostegno a gente disperata ma bisognosa di aggrapparsi letteralmente alla Provvidenza. La musica che accompagna la canzone mostra un notevole crescendo nella parte centrale.

Un album attuale su un tema in cui parole di retorica o fraintendibili sono fortunatamente lontane anni luce. Un lavoro variegato, anche per l’utilizzo di idiomi diversi a mescolarsi e suggerirci che in fondo siamo tutti dalla stessa parte. Flavio Giurato ha stupito, come detto in apertura, per la pubblicazione così ravvicinata alla precedente dopo tanti anni di oblio. Certamente non si è trattato di “battere il ferro finchè è caldo”, se è vero che a riscontri pressochè unanimi della critica specializzata, vi era stata una risposta comunque tiepida del pubblico. Fa piacere però che ci sia chi se ne frega, e la sua storia dimostra che l’ha sempre fatto, di logiche prettamente commerciali, puntando sulla voglia di comunicare e condividere il proprio punto di vista sul mondo. E questo, in un’epoca in cui la figura del cantautore è stata pressochè inglobata nel pop, è un bel segnale.