Arriviamo lunghi e tardissimo con questo disco. Lo sappiamo. E vi chiediamo scusa. Ma l’importante è poter dire la nostra.
Col loro terzo lavoro gli Ultrasound si concedono uno sfizio: hanno realizzato un disco di impianto squisitamente ’70 con un lato b (del vinile) interamente occupato da un’unica suite.
Ma non lasciatevi distrarre, è solo un gioco dietro al quale la band cela una manciata di canzoni che ci immergono con entrambi i piedi nel presente, nello specifico, in quello dell’Inghilterra di oggi tra Brexit, Ukip e una crisi economica che ancora si fa sentire (la “Real Britannia” del titolo appunto).
La voce unica di Andy “‘Tiny’ Wood si articola in melodie mai scontate e si declina in testi come sempre al fulmicotone che mettono a nudo una Albione decisamente meno glam e patinata di quella che ci arriva di solito da musica e media vari. Le chitarre di Richard Green non sono da meno, sia per i suoni raffinati e taglienti, che per riff e solos di pregio. Il basso marziale di Vanessa Best (voce in “Soul Girl”) riempie senza annoiare. Bruce Renshaw, il nuovo entrato alla batteria non è da meno dei suoi predecessori.

Il disco parte subito bene con “Kon-Tiki”, singolo leggero, che sembra fatto apposta per le classifiche, ma che in realtà  parla della fuga di un ragazzo dalla vergogna della propria famiglia allorchè scoperto ad essere un travestito. E qui sta la chiave di lettura di tutto “Real Britannia”: impianto e suoni ’70, attitudine decisamente brit-pop, ma tematiche contemporanee. In questo gli Ultrasound, seppure poco conosciuti, non hanno nulla da invidiare a un mostro sacro come Morrissey. Il resto si muove tra cavalcate rock (“Soul Girl”), ballate (“Asylum”) e pezzi più scuri e meno diretti (“God’s Gift” e “No Man’s Land”), fino ad arrivare alla stupenda suite finale “Blue Remembered Hills” che, racchiudendo tutti gli stilemi precedenti, di divide in “Please Won’t You Bleed For Me”, “Home Time”, “Cuckoo, Mummy’s Boy”, “Come Unto Me”, “Real Britannia” e “Past Presence”. Il consiglio è di ascoltarla tutta d’un fiato.

Forse in ciò sta la pecca di dischi come questo: in un’epoca in cui anche la musica è consumata freneticamente, relegata sempre più alla sfera del puro intrattenimento e meno a quella dell’arte, c’è ancora, per band  che non si vogliono piegare alle sole leggi del mercato, la possibilità  di farsi ascoltare?