Sembrano sempre in missione per conto di qualche altissima divinità  delle sette note Peter e David Brewis, i due fratelli inglesi che si nascondono dietro il marchio Field Music. Arrivati ormai al settimo album dal 2005 in poi (con una pausa di qualche anno che ha portato alla nascita di gruppi non poi così paralleli come School Of Language e The Week That Was) i Brewis difficilmente possono sorprendere chi li ascolta o se stessi. D’altronde se Prince dimostra di apprezzare la tua musica (nel 2015 sull’account twitter ufficiale del compianto folletto di Minneapolis è apparso un link a “The Noisy Days Are Over” il primo singolo tratto dal sesto disco dei Field Music, “Commontime”) puoi anche permetterti di riposare tranquillo sugli allori. Riposo che però non si addice ai Brewis.

“Open Here” è probabilmente l’album più ambizioso della loro carriera, registrato insieme a un variegato gruppo di musicisti ribattezzati per l’occasione The Open Here Orchestra. Al quartetto d’archi che da tempo accompagna i Field Music si sono aggiunti Sarah Hayes al flauto e all’ottavino, Pete Fraser al sassofono, Simon Dennis alla tromba e al flicorno. Peter e David Brewis non hanno deciso di tentare la strada della musica classica sia ben chiaro: il loro prog pop profuma sempre di XTC, Yes, Talking Heads e Genesis (arricchito stavolta da un pizzico di Jethro Tull) fin dalle prime note di “Time In Joy” col suo minuzioso arrangiamento capace di far sembrare semplici anche le più difficili evoluzioni. In questi tredici anni i Field Music hanno (forse inevitabilmente) perso l’esuberanza giovanile à  la Maximo Park ma sono ancora capaci di divertire con grinta in “Count It Up” e di comporre piccole gemme pop come “No King No Princess” o “Daylight Saving”, due canzoni che i Vampire Weekend ruberebbero volentieri.

Sono comunque diversi, i Field Music del 2018. Se qualche tempo fa facevano riflettere e ballare oggi preferiscono osservare il mondo restando seduti e affidandosi all’ironia, senza però rinunciare del tutto al funk che tanto doveva aver affascinato Prince (difficile stare fermi ascoltando “Share A Pillow”).”Open Here” non è un album immediato come “(Measure)” o “Tones Of Town”. Curatissimo, richiede numerosi ascolti per essere apprezzato a dovere. Uno sforzo e notevole quello fatto dai fratelli Brewis, visto che questo settimo disco è stato registrato poco dopo aver saputo di essere stati sfrattati dal loro storico studio di registrazione. Ed essere capaci di reagire con l’intensità  di “Cameraman” e la leggerezza di una “Find A Way To Keep Me” che ricorda molto il Peter Gabriel solista non era semplice.