“Love Is A Terrible Thing”. Tutto ruota intorno a questa frase e a questa canzone, posta propio a metà  del secondo album di Marlon Williams che, dopo la rottura con Aldous Harding, infonde tutta la sua amarezza e i suoi pensieri su questo dannato sentimento che comanda cuore e cervello.

Ricordi, rimorsi, malinconie, amarezze, gelosie, angoscia, l’interrompersi di un rapporto che parte dal dialogo che sempre più viene a mancare, il dolore per una perdita: difficile immaginarsi un disco solare con queste premesse e poi la voce stessa di Marlon, con quel timbro magnifico da crooner, si presta alle struggenti melodie che caratterizzano il lavoro. Capiamo quindi che la fine di un amore non sarà  analizzata sotto l’ottica della voglia di riscatto o della rabbia, ma proprio sotto l’aspetto più intenso e personale, come se ci trovassimo di fronte a una vera e propria “autoanalisi”.

Spesso viene tirato in ballo l’accostamento con Chris Isaak e Roy Orbison e sicuramente questi artisti possono essere una valido termine di paragone se pensiamo agli arrangiamenti eleganti e al romanticismo grondante d’archi di “Come To Me”, alla deliziosa “What’s Chasing You” o al rockabilly a basso ritmo (anche qui con pregevoli suggestioni d’archi) di “I Know a Jeweler”, ma nel disco c’è ben di più, dalle devastanti e oscure ballate condotte principalmente al piano (la già  citata “Love Is A Terrible Thing” o “I Didn’t Make a Plane” che pare un incrocio tra Nick Cave e i Cousteau), all’andamento quasi bucolico del duetto proprio con Aldous Harding (se non è catarsi questa!), al doo-wop della title-track, per non parlare dell’esaltante “Party Boy” che unisce  davvero Suicide e anni ’50, come qualcuno ha scritto su internet.

“Love Is A Terrible Thing”, ma non riusciamo a farne a meno. Dannazione.