Siamo in tanti a conoscere e apprezzare le produzioni e le attività  della Merge Records, la storica etichetta indipendente americana che ha lanciato la carriera degli Arcade Fire e dato alle stampe alcuni dischi imprescindibili a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio (“69 Love Songs” dei Magnetic Fields e “In The Aeroplane Over The Sea” dei Neutral Milk Hotel, solo per fare due esempi). Per tutto questo e molto altro ancora dobbiamo ringraziare Mac McCaughan e Laura Ballance che, oltre a essere i fondatori di questa isola felice dell’alternative, rappresentano da quasi un trentennio il fulcro creativo dei Superchunk, una delle band simbolo dell’indie rock anni ’90 che meglio ha resistito alla prova del tempo. La pausa di quasi un decennio tra “Here’s To Shutting Up” (2001) e “Majesty Shredding” (2010) ce li ha restituiti freschi e pimpanti, con la loro personalissima formula a base di irresistibili melodie power pop e quintali di chitarre elettriche tirata a lucido. Uno stato di grazia in evidenza anche nell’ottimo “I Hate Music”, pubblicato sul finire dell’estate del 2013; ma è con il nuovo “What A Time To Be Alive” che il quartetto di Chaper Hill fa il vero colpo grosso, dando vita a uno degli album più godibili, scoppiettanti e incredibilmente profondi di questo inizio 2018.

Dalla durata contenuta (appena 32 minuti) alla produzione essenziale ma efficace, l’undicesimo capitolo della discografia dei Superchunk ha tutti i pregi della migliore tradizione pop punk a stelle e strisce: canzoni semplici, orecchiabili e cariche di energia. Aggiungeteci una bella lista di ospiti di lusso (Katie Crutchfield dei Waxahatchee, Stephin Merritt dei Magnetic Fields e Sabrina Ellis degli A Giant Dog) e il gioco è fatto. Come tante altre uscite recenti, anche le canzoni di “What A Time To Be Alive” affondano le loro radici nel cuore dell’America ferita dopo le elezioni presidenziali del novembre 2016. Riprendendo il titolo di un articolo pubblicato lo scorso febbraio dal “New York Times”, c’è voluto Donald Trump per trasformare gli introspettivi Superchunk in una band impegnata sul fronte politico. Lo sconforto che avvolge la potente title track è esemplificativo dello stato d’animo di McCaughan, che nel ritornello urla contro “la feccia, la vergogna e le fottute bugie” della nostra epoca. Bisogna “arrendersi al fiume di merda”, come canta nella fulminante bordata punk “Lost My Brain”, o spaccarsi le mani per sfondare le porte dell’ipocrisia, come ci ricorda nell’intensa “Break The Glass” (Break the glass/Don’t use the door/This is what/Our hands are for)? Le scelte dell’amministrazione Trump rappresentano un danno per una larga fetta della popolazione statunitense (“Bad Choices”) e una pistola puntata contro l’empatia (“Erasure”); in “I Got Cut”, un duro attacco contro la decisione della Casa Bianca di tagliare i finanziamenti in materia di salute sessuale e riproduttiva, i membri della squadra di governo del tycoon newyorchese vengono raffigurati come “vecchi uomini che non moriranno mai abbastanza presto”, semplici marionette tenute in piedi da “palloncini di carne”.

Non saranno fin troppo caustici questi nuovi Superchunk? Può darsi, ma dalla loro hanno anche una gran voglia di smuovere le acque e risvegliare qualche coscienza. Magari riprendendo la lezione hardcore antifascista e militante dei Reagan Youth, omaggiati nel brano che porta il loro stesso nome, oppure sfidando direttamente i nemici, come cantano in “All For You” (Fight me/I’m not a violent person but/Fight me/Can’t really get any worse so/Fight me/Oh if you disagree just/Fight me). La soluzione, forse, si nasconde nella bella ballad che chiude il disco, “Black Thread”: basterebbe tagliare il “filo nero” aggrovigliato intorno al mondo di oggi per ritrovare qualche piccola speranza.