Discaccio. Poco da fare. Un disco finto, senza cuore, senza personalità : una musica in pasto a dei produttori che la cannibalizzano e trasformano un gruppo, comunque, rock in una massa informe di pseudo hip-hop melodrammatico. Bisogna dirle subito queste cose, per essere chiari.

Il nuovo album dei Thirty Seconds to Mars diventa uno show personale di Jared Leto, che praticamente riduce a zero l’apporto dei suoi compagni di viaggio e sforna le canzoni più anonime, plastificate e iperprodotte della sua carriera, incapaci di brillare sia in ambito melodico sia in quello epico, che da sempre è il marchio di fabbrica della band. Più che un disco pare davvero una misera colonna sonora di uno spot per Jared, che nel frattempo si è fatto i suoi giretti per l’America a promuovere ste miserie, ma al di là  di questo, non solo non ha alcuno spunto positivo ma ci si chiede anche il senso dell’intera operazione.

Cambiare? Ci sta, certo. Mettere in soffitta la chitarre per puntare sui synth e l’elettronica? Ci sta, certo. Ma fare canzoni così anonime no, quello è inaccettabile. Lasciamo certe banalità  mainstream a un Justin Bieber che cerca di fare l’uomo maturo (senza riuscirci ovviamente), ma non leghiamole al nome Thirty Seconds to Mars. Jared dice di aver sempre apprezzato l’elettronica e che anzi, ormai le chitarre distorte sono superate. Nessun problema. Ma fin ad oggi un sogwriting così banale non c’era mai stato. Come sono lontani i tempi in cui la musica della sua band era un mix tra U2 e Angels & Airwaves, ricca di grandi moti d’orgoglio e capace di coinvolgere mente e cuore. Ora pare un miserrimo cantante d’alta classifica americana, attentissimo alla forma ma disattento al contenuto.

Tra testi scritti probabilmente a caso o dall’equivalente di Topo Gigio in America, non riusciamo neanche a citare con passione qualche brano che si elevi deciso dal pattume. “Walk on Water” prova a essere il solito inno, con tanto di cori gospel: messa in apertura almeno sembra promettere la classica maestosità , che invece poi, continuando nel disco, viene a mancare. “Live Like a Dream” è l’ennesima auto citazione di sè stessi, ricompaiono i classici cori, ma almeno ci sentiamo in un territorio caro (più o meno) alla band, anche se l’idea è che questo sia un brano vecchio messo dentro “a forza” per far stare sereni i fan di vecchia data. Il pezzo più genuino, in un lavoro finto e piatto, è l’acustica “Remedy”, con Shannon al voce, finalmente qualcosa per cui emozionarsi veramente. Il resto non solo è inutile citarlo, ma, come dicevamo, poteva uscire tranquillamente a nome Jared Leto, per un suo lavoro solista in un ambito lontano dal rock e invece il nostro ha sputtanato allegramente la sua band. Spiace.