Mi ritrovo a passeggiare per le strade di Amburgo e decido di iniziare ad ascoltare Vivere o morire, il secondo disco di Francesco Motta.

Proprio nell’istante in cui premo quel magico triangolino sul mio iPhone mi viene da pensare a ciò che è passato nella sua mente nel preciso momento in cui ha deciso di sedersi davanti al suo PC e imboccare quel lungo e oscuro tunnel con una piccola luce bianca in lontananza che sarebbe coinciso con la creazione della sua seconda opera.

Ok, la canzone della vita che mi chiederanno da qui fino all’eternità  ad ogni cazzo di live l’ho già  scritta. L’album generazionale che mi ha fatto vincere la Targa Tenco l’ho già  scritto”…e quindi da dove diavolo inizio ?

In questi casi esistono due soluzioni”…la prima, la più semplice e che tutti probabilmente si aspettano, è quella di continuare sullo stesso percorso sonoro dell’esordio, quasi come se si trattasse di un volume 2, ma che rischierebbe inevitabilmente di ricreare quell’effetto copia e incolla così come è successo per il secondo disco de Le Luci della Centrale Elettrica e con l’ovvia constatazione finale che manca l’effetto sorpresa.

La seconda, che è quella che ha scelto coraggiosamente il trentunenne livornese radicato da qualche anno a Roma (città  che vengono entrambe giustamente citate nell’album per quello che metaforicamente rappresentano), è quella di mischiare le carte e di cimentarsi con qualcosa che oltrepassi la comfort zone, per evitare di trovare volontariamente un proprio equilibrio artistico.

E quello che c’è al di là  della comfort zone in questo caso si chiama Pop.

Non sappiamo esattamente se questo cambio di direzione sia stato in parte condizionato dalla scelta del superlativo produttore Riccardo Sinigallia (che aveva contribuito al successo de “La fine dei vent’anni”) di lasciare campo libero a Francesco con un bel e adesso te la devi smazzare da solo.

Supportato quindi da un altro grande paroliere/artista di nome Pacifico e dal produttore Taketo Gohara (già  all’opera con Vinicio Capossela, Brunori Sas, Ministri, Marta sui tubi etc.), si decide di puntare tutto sui testi, volendo trovare raffinate soluzioni sonore acustiche/minimal arricchite da qualche arco e da qualche fiato che vadano ad impreziosire il ruolo di ogni singola parola scelta scrupolosamente senza mai sovrastarla.

Il primo brano “Ed è quasi come essere felice”, unica eccezione del lotto rispetto al mood cantautoriale dell’album, ha il ruolo di anello di congiunzione con il clamoroso album d’esordio attraverso un’epica e una intensità  prodotta dai synth e dalle tastiere e da quei messaggi lanciati quasi come se fossero dei tweet. Ma già  dal secondo brano sale in cattedra la qualità  autoriale del duo Motta/Pacifico con racconti che svolgono la funzione di vere e proprie sedute di autoanalisi e che si avventurano ad esplorare piccoli microcosmi in cui ci possiamo ritrovare tutti, generazioni x, y o zero che siano, parlando in maniera profonda ed efficace di amori perduti, amori iniziati, di prime volte, fragilità  umane, errori giustamente commessi e rapporti tra padri e figli invertiti (a proposito, istruzioni per l’uso prima dell’ascolto della toccante ballata/waltzer di “Mi parli di te”: preparate i fazzoletti).

Potrei citare almeno una ventina di frasi cult del disco ma preferisco lasciare a voi la libertà  di scegliere le vostre preferite.

Tra tutte mi viene da citare però l’intero testo della title track, “Vivere o morire”, che per il sottoscritto è un piccolo capolavoro, una vera confessione a cuore aperto, come quelli semplici e diretti che arrivavano al cuore e allo stomaco dell’ascoltatore e che era in grado di scrivere il Vasco Rossi outsider degli anni d’oro (quello nazionalpopolare degli ultimi 15 anni venderebbe l’anima al diavolo per riuscire a scrivere ancora una canzone del genere).

In questa raccolta, che potrebbe essere considerata quasi come un concept psico/sociale moderno, ritroviamo quindi nove delicate creature appoggiate su accordi acustici in loop (del resto a lui di cambiare accordi non gliene frega niente), semi narrate con quell’enfasi malinconica e che procedono con la stessa eleganza e raffinatezza di maestri della nostra tradizione cantautorale come De Gregori, Nada e Giorgio Canali o di esponenti di quella scena indie/pop iniziata anni fa con i vari Dente, Perturbazione, Moltheni etc. e che riconosce a pieno diritto oggi come uno dei suoi principali rappresentanti questo Joey Ramone nostrano.