Il terzo lavoro della cantante e pianista Carlot-ta (all’anagrafe Carlotta Sillano) rappresenta una sorta di unicum, quanto meno nel panorama attuale del pop italiano.
La ventisettenne piemontese ci ha in realtà  abituati, sin dal suo esordio del 2011 (“Make Me A Picture of the Sun”), a soluzioni particolari, poco radiofoniche ma estremamente affascinanti e raffinate, tanto da guadagnarsi riconoscimenti importanti (il Premio Ciampi e un secondo posto al Tenco tra i dischi di debutto).

L’album successivo, di tre anni più vecchio (“Songs of Mountain Stream”) confermava le felici intuizioni melodiche, col pianoforte strumento principe a farla da padrone e la voce magnetica e suggestiva della cantautrice ad ammaliare.
Questo “Murmure” però spinge decisamente l’asticella più in alto, a partire da un suono che si fa solenne, maestoso, evocativo di un mondo (sonoro ma non solo) antico, ma flirtato dalla modernità , inserito pienamente in quest’epoca così frastagliata e caotica.

Carlot-ta rimase folgorata dal risultato di un “esperimento” durante un live del 2015, quando accolse la proposta al Festival “A Night Like This” di arrangiare i suoi brani sin lì sempre interamente composti al pianoforte, con l’organo a canne. Il contesto e l’ambiente lo richiedevano e questo ha fatto scattare in lei una vera scintilla creativa.
Nello scrivere, ma prima ancora nel pensare quello che sarebbe poi diventato “Murmure”, Carlot-ta ha ricercato temi e atmosfere che richiamassero inevitabilmente la spiritualità  e l’arcaico, e con semplici tocchi di elettronica qua e là  a colorare i pezzi, si è trovata tra le mani un gioiello da maneggiare con cura.

Ha contribuito alla magia di questo disco il fatto di averlo registrato interamente (spostandosi tra Italia, Svezia e Danimarca) in luoghi poco consueti ma assolutamente necessari in questo caso, laddove fossero presenti degli organi mesotonici che facessero risaltare al massimo delle sue potenzialità  quelle composizioni, a partire da un esemplare splendido del “‘700 situato nella Chiesa di Chiaverano, lo stesso col quale l’artista si cimentò a suonare i suoi brani per la prima volta in questa veste. Prezioso il lavoro del produttore Paul Evans, già  al lavoro con Bjork, Damon Albarn, Cocorosie, Sigur Ros, nello spingere verso questa affascinante ma rischiosa soluzione, dopo aver sentito i primi provini dell’artista italiana.

Tra le canzoni spiccano quella di apertura, l’algida e misteriosa “Virgin of the Noise”, la vivace “Sputnik 5”, la più ritmata del lotto “Samba Macabre” e l’unico brano cantato in francese “Le Valse du Conifere”. Ma sarebbe ingeneroso limitarsi a segnalare solo quei brani che magari risaltano a un primo approccio, proprio perchè la natura del singolare progetto impone ascolti attenti e ripetuti. Ed allora ecco che si rimane rapiti dalla fiabesca e onirica “Churches” e dalla dolcezza infinita di “To the Lightouse” che chiude l’intero disco.

D’impatto emotivo è anche “Garden of Love” in cui Carlot-ta si ritrova a musicare una poesia di William Blake. Al di là  dell’indubbia forza evocativa del testo, è proprio l’apparato musicale a colpire di più in questo brano.
Dal vivo non sarà  semplice ricreare questo suono, queste atmosfere, e proprio a tal proposito, l’intento è quello di suonarlo in contesti particolari, come accaduto per la prima data del tour, avvenuta il 6 aprile al Tempio Valdese di Torino all’interno del quale si trova un organo a canne neo barocco.

Un disco che si segnala tra i più interessanti dell’anno, potente e minimale assieme, folk nella sua più generale e ampia accezione, e che potrebbe paradossalmente godere di più credito all’estero. In ogni caso un disco molto curato, concettuale, ricercato, voluto, “diverso”: una sfida dal nostro punto di vista portata a termine in modo assolutamente vincente. Creatività , originalità , qualità  e sensibilità  sono gli ingredienti principali di quest’opera.