Che i Gorillaz siano uno dei side project più interessanti degli ultimi 20 anni, per via soprattutto della sua natura di cartoon band semi-virtuale, è innegabile: Damon Albarn e Jamie Hewlett hanno creato con il loro estro, fantasia e talento non solo dei personaggi sgangherati e divertenti che portano avanti la loro bizzarra e bislacca storia, ma anche una proposta musicale che ci ha regalato momenti importanti e banger pop dal valore universalmente riconosciuto.

Ad un anno dall’uscita del precedente “Humanz”, tornano con il loro sesto album, co-prodotto e scritto dal “solito” Damon Albarn, James Ford (Simian Mobile Disco) e Remi Kabaka jr. (che peraltro dà  la voce al batterista Russel Hobbs); rispetto al precedente lavoro, le collaborazioni e i featuring sono stati sensibilmente ridotti (attenzione però, interviene Graham Coxon in “Magic City”), e con questi le colorazioni R&B, Hip-hop, casiniste e danzerecce derivanti anche dagli interventi di vari personaggi come Vince Staples, Pusha T o De La Soul .

Tutto partirebbe pure col giusto piglio, grazie anche alla chitarra jazz di George Benson a rendere fresca, funky e divertente la traccia d’apertura “Humility” (nel cui video compare anche Jack Black), con vibrazioni coinvolgenti che si susseguono in pezzi come “Hollywood”, a cui partecipano anche Snoop Dog e Jamie Principle, “Kansas” con i suoi bassi belli pomposi ed allineati o “Sorcererz” col suo ammaliante riff da synth anni ’80.

Però, già  dalla successiva “Idaho” emergono i primi segnali, che trovano conferma andando avanti: i Gorillaz tendono a delinearsi più come la spalla di 2D che come i veri protagonisti in solido. Ed anche i testi, i toni, le melodie, paiono più memorie, sentimenti e narrazioni biografiche dello stesso Damon Albarn che della sua proiezione cartoonosa; con la “riumanizzazione” di 2D, scende anche il groove ed il fattore scazzo, le atmosfere si fanno intime e personali, soul e minimaliste, le nuance da vivaci più grigie e malinconiche, tant’è che sembra di trovarsi di fronte al seguito di “Everyday Robots” invece che al nuovo capitolo della saga Gorillaz.

L’iperproduttività  di Albarn è sicuramente fonte di piacere e sempre ben accetta, e nessuno ne mette in discussione talento, eclettismo e classe. Resta un po’ di insoddisfazione per un lavoro che sembra, come detto, frutto della graduale ma evidente presa personale della scena da parte del suo timoniere, oltre che per la mancanza di quell’effervescenza e contagiosità  in passato garanti di pezzi super catchy ed ancora attuali. Col rischio di rendere velocemente questo “The Now Now” facile preda dell’oblio.