Sarà davvero valido il motto della cara Belinda Carlisle, che a suo tempo ci invitava a credere “Heaven is a place on earth”? Ci sarebbe da aprire un bel dibattito, al quale sicuramente parteciperebbero anche i Dilly Dally, guidati dalla voce ruvida e tagliente Katie Monks, capace di passare da toni quasi bambineschi a urla che fanno gelare il sangue.
Citiamo Katie perchè, ancor di più che nell’esordio, tutto passa e viene filtrato attraverso di lei: rabbia, dolore, incertezza, speranza, graffi, senso di protezione. Katie è parafulmine assoluto, sia che intorno a lei rombino chitarre anni ’90 (restano validi i paragoni a Hole e Smashing e il termine grunge), sia che il tono si faccia quasi doom metal o dilatato. La sua voce, i suoi testi sono quella testa d’ariete che ci colpisce duramente e non ci da tregua, facendosi inevitabilmente strada nel nostro cervello.
Il disco è stato descritto come se la band fosse morta e si fosse ritrovata in paradiso. Un luogo finalmente “sano”, in cui sentirsi liberi e protetti, in cui sentirsi finalmente redenti, verrebbe da dire. Una redenzione urlata, cercata e trovata, necessaria forse, dopo il climax nero che aveva colpito la cantante, che passa attraverso chitarre rumorose e distorte, ritmi pesanti e plumbei, frangenti più melodici, ma anche spazi quasi mormorati, asettici e realmente paradisiaci (“Believe” e “Marijuana”). La copertina del disco la dice lunga: le ali sono immacolate e bianche, il nuovo è arrivato, la consapevolezza del paradiso avvolge la band, ma gli occhi non possono dimenticare il nero: il percorso fatto non si dimentica e pesa ancora. Forse per sempre.