di Vincenzo Papeo

foto di Valentina Salamone

è una fredda serata bolognese quella del ventinove novembre, l’atmosfera invernale è davvero azzeccata per quella che si prospetta come un’occasione valida per fare il punto generale della carriera in chiaroscuro degli Editors, per la loro unica data italiana.

Ci rechiamo al Paladozza per l’orario di apertura delle porte e notiamo che la lunga coda all’entrata è quella delle grandi occasioni. L’età  media delle persone in fila è piuttosto variegata: si oscilla tra un pubblico dignitosamente attempato ed ex-ragazzetti – questi ultimi dovevano essere a malapena adolescenti quando uscivano in serie “The Back Room” e “An End Has a Start” (tempi in cui sognare sembrava proprio una gran cosa). Un po’ tutti, in ogni caso, hanno seguito fedelmente la band britannica fino all’uscita di “Violence”, il sesto disco in studio di Smith e soci.

Entrati nel palazzetto notiamo subito che, sullo sfondo del palco, si staglia maestosamente la gigantografia dell’artwork di “Violence”, realizzata Rahi Rezvani. L’artista iraniano è diventato il sesto membro degli Editors dall’album In Dreams (2015): egli infatti cura scrupolosamente tutto ciò che concerne l’aspetto visivo della band, inclusi effetti scenici e videoclip.

Siamo curiosi di capire quale sarà  l’effetto dal vivo del già  citato nuovo disco, per molti aspetti derivativo del positivo “In Dreams”, che aveva rappresentato un punto di (ri)partenza dalle scorribande arena rock poco apprezzate da critica e pubblico di “The Weight of Your Love” (2013). “Violence”, infatti, riprende in chiave meno cupa le sonorità  elettroniche del suo predecessore, dando un peso più rilevante agli strumenti e sfornando una sfilza di pezzi più facilmente assimilabili da un orecchio poco allenato all’ascolto di strutture ritmiche gelide e fosche linee di synth, mantenendo a sprazzi inalterata la formula perfetta a far da eco per tutto ciò che aveva senso ascoltare negli eighties (dai Depeche Mode ai New Order, per citare due esempi).

Sono circa le 19.50 ed è il momento del cantautore e polistrumentista Andy Burrows, ex batterista di Razorlight e We Are Scientists, nonchè compagno di merende proprio di Tom Smith nel duo Smith And Burrows, autori nel 2011 dell’album natalizio “Funny Looking Angels”. A lui spetta il compito di intrattenere il pubblico prima dell’evento principale.

La voce calda e rassicurante di Burrows, unita alle linee melodiche pop-folk della chitarra acustica e alle strutture ritmiche genuine dei suoi due accompagnatori-chitarristi sul palco, fanno volare senza troppi rimpianti circa quaranta minuti di repertorio. Il pubblico sembra generalmente gradire: tra gli episodi più apprezzati è doveroso menzionare la cover di Gart MacDermot, “Frank Mills”, il singolo “Barcelona” e il prevedibile duetto con Smith, accolto dall’ovazione dei fan e salito sul palco con tanto di cappellino d’ordinanza, con cui ha presentato l’inedito “All The Best Moves”.

Il buon Burrows ci saluta con una pregevole cover acustica di “America” dei Razorlight e va via esprimendo il suo amore per i tortellini, salutato calorosamente dal pubblico.

Quando scoccano le 21 arriva il momento degli Editors, che salgono nella penombra sul palco con una puntualità  impeccabile. La band britannica sorprende un po’ tutti, aprendo coraggiosamente la data con “The Boxer”, marcia sepolcrale tratta dall’album forse artisticamente più maturo dei britannici, “In This Light And On This Evening” (2008), che dieci anni fa diede il via all’evoluzione sintetica della band. Il pubblico sembra apprezzare molto la scelta a sorpresa, e si lascia cullare dal baritono di Tom Smith fino alla fine del brano, per poi celebrare il tutto con un applauso scrosciante.

Come ci si aspetterebbe da una band arrivata al sesto album, la scaletta è stata riempita per questa unica data italiana con brani sparsi, tratti dal meglio della loro discografia, senza privilegiare la tracklist di “Violence”.

La prima parte del concerto prosegue abbastanza linearmente e priva di grossi boati con “Sugar”, una delle tracce migliori di “The Weight Of Your Love”, e con la graditissima traccia “Hallellujah (So Low)”, presa dall’ultimo album.

L’impressione è che i ragazzi di Stafford abbiano deciso di provare a mettere d’accordo proprio tutti i loro seguaci, ma il meglio arriva inevitabilmente proprio dai brani della prima parte della loro discografia: complici gli effetti scenici davvero strepitosi, riescono a mettere in fila due pezzi joy-divisioniani come “All Sparks” (tratto dall’esordio) e l’eponima “An End Has a Start”, che esprimono al meglio sul palco e donano una botta di adrenalina notevole al pubblico, che esplode in un delirio nella terza gemma post-punk che è “Fingers In The Factory”, dotata di un ritornello progressivo che è costruito per fare saltare chiunque.

Tom Smith fa proprio quello che dovrebbe fare un frontman che si rispetti, sia quando impugna la chitarra per eseguire i loro primi pezzi, che quando è relegato al solo uso del microfono, come in “Darkness At The Door (“Violence”); ma sa mostrare anche la sua anima intimista al piano, come in “Salvation” (“In Dreams”), con il pubblico che non si è ancora ripreso dai pezzi precedenti e risponde abbastanza freddamente.

L’atmosfera torna visibilmente elettrica in “Violence”, forse il brano più riuscito dell’ultimo album e anche l’esibizione più sentita da parte di tutti. Smith la intona in una scenografia rossa e con le mani rigorosamente alzate, come farebbe un predicatore della Louisiana con il suo sermone, in modo da scatenare il pubblico in numerosi hand-clapping e in un singalong reiterato che non si placa nemmeno nell’energico e lungo outro.

Nella seconda parte del concerto c’è spazio per l’ipnotica “No Harm” (“In Dreams”) e per l’ennesimo salto nel passato con “Bullets” (la scelta di inserire non pochi brani da “The Back Room” si è rivelata vincente), prima di mostrare tutto il loro potenziale da arena rock ascoltato in “The Weight Of Your Love”: si nota tutto nella tanto attesa “A Ton Of Love”, in “Formaldehyde”, e nella versione abbastanza originale di “Nothing”, rimaneggiata per l’uso come fosse un pezzo elettronico di “Violence”.

Ci sono anche momenti di stallo, in cui il coinvolgimento latita visibilmente: “Nothingness” (“Violence”) e “Ocean Of Night” (“In Dreams”) servono quasi solo a soddisfare le pretese del pubblico più giovane. Tuttavia, il risultato torna trascinante per tutti con l’ennesimo brano tratto da “The Back Room”, “Blood”, ma soprattutto con la carica incredibile sprigionata da “Papillon”, che fa alzare e contorcersi anche tutti coloro che sono seduti sugli spalti, prima di chiudere con il singolone “Magazine”.

Durante l’encore c’è spazio per un’entrata in scena di Tom Smith alla chitarra, che accenna i primi minuti della splendida “Fall” prima di suonare una versione acustica di “The Weight”.

Per il gran finale gli Editors tornano sul palco al completo per dare spazio, per l’ultima volta, all’album “Violence”, con la ricercatezza catchy della opener del disco, “Cold”. Ma è solo l’antipasto: finito il brano si fa ora di rispolverare quello che era il loro marchio di fabbrica, al fine di salutarci nel migliore dei modi. L’epica senza confini di “The Racing Rats” e “Smokers Outside The Ospital Door” (intervallate da “Munich”) chiudono circa due ore di repertorio e sono toccanti al punto da indurci a chiedere come mai essi abbiano deciso di mutare forma così tante volte, durante gli episodi musicali che hanno composto la loro carriera.

Il pubblico intona all’unisono le parole «Can I start this again », tratte dal ritornello di “Smokers Outside The Ospital Doors”, prima di lasciarsi andare ad un applauso liberatorio. Quando si accendono le luci, realizziamo che non avrebbero mai potuto chiudere con qualsiasi altro brano, se non con quello.

Usciamo dal Paladozza soddisfatti dello spettacolo e, in fondo, siamo consapevoli del fatto che la struttura della scaletta (a tratti forzata, ma non necessariamente banale) ha permesso a tutti di ammirare «la mangrovia» (si sono definiti così in una recente puntata del programma di Manuel Agnelli) nelle sue numerose sfaccettature. Gli Editors, dal loro canto, non deludono nella loro unica data italiana, riuscendo a suonare onestamente per due ore e a donare un numero elevato di sensazioni differenti tra loro. Ben fatto.