Che li amiate o li odiate, di certo non potete accusare i Queen di aver ripetuto sempre la solita solfa nell’arco della loro trionfale carriera. In quindici album sono riusciti a esplorare praticamente ogni genere musicale esistente, dando mostra di una vocazione sperimentale assolutamente inedita per una band commerciale: dall’hard rock all’opera lirica, passando per il rockabilly anni ’50 (“Crazy Little Thing Called Love”, “Man On The Prowl”), le simpatiche canzonette da teatro vaudeville (“Seaside Rendezvous”, “The Millionaire Waltz”) e addirittura qualche incursione nel punk (il brano “Sheer Heart Attack”), Freddie Mercury e compagni non si sono fatti mancare davvero nulla. E se i risultati non sono sempre stati memorabili, poco importa: quello che oggi ci resta è il coraggio di quattro artisti che hanno scritto alcune delle canzoni più famose e amate nella storia del rock. Lo stesso coraggio che, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, li spinse a fare qualcosa che non avrebbero neppure preso in considerazione ai tempi di “A Night At The Opera”: usare i sintetizzatori nei loro album. A partire da “News Of The World” in poi, il loro sound iniziò in maniera lenta ma decisa a virare verso lidi elettronici, costringendo in più di qualche occasione il povero Brian May a togliere dal trono della Regina la sua leggendaria Red Special. In questa Top 10 proverò a ripercorrere, in rigoroso ordine cronologico, le tappe più significative di questo rapporto conflittuale tra i Queen e i synth. Dico conflittuale perchè, come sapranno bene i fan del quartetto britannico, non tutte le tracce presenti in questa lista sono degne del talento dei loro autori. Anzi.

GET DOWN, MAKE LOVE

1977, da “News Of The World”

Il primo timidissimo approccio al fantastico mondo dei sintetizzatori. Questo favoloso brano tratto da “News Of The World” è uno dei migliori esempi della versatilità  dei Queen: il giro di basso essenziale ma sexy di John Deacon sulle strofe trasuda funk da tutti i pori, così come il cantato aggressivo di Freddie Mercury, che qui ricorda da vicino lo stile della panterona soul Betty Davis. La parentesi elettronica la trovate dopo il secondo ritornello, e sembra essere stata preparata quasi per fare una piccola sorpresa agli ascoltatori: dall’hard rock si passa a un vortice di suoni sintetici e spaziali, con la cassa di Roger Taylor a scandire il tempo. Siamo al limite della cacofonia, ma sono già  avvertibili alcune caratteristiche che poi avrebbero trovato ampio spazio nella colonna sonora di “Flash Gordon”.

PLAY THE GAME

1980, da “The Game”

C’è solo un motivo per includere un brano come “Play The Game”, un classicone dei Queen che più “queeniano” non si può, in una lista del genere. Quel motivo si chiama Oberheim OB-X, ovvero il modello di sintetizzatore qui utilizzato nella intro e nel rumorosissimo bridge pre-assolo. Per la prima volta nella loro carriera, i quattro di Londra ammettono ufficialmente di aver ceduto al fascino del digitale: è l’inizio di una nuova era.

MING’S THEME (IN THE COURT OF MING THE MERCILESS)

FOOTBALL FIGHT

1980, da “Flash Gordon”

Nel 1980, neanche sei mesi dopo l’uscita di “The Game”, arrivò nei negozi di dischi la colonna sonora di “Flash Gordon”, il film diretto da Mike Hodges basato sull’omonimo personaggio dei fumetti. Un’opera quasi totalmente strumentale nella quale il lato “sintetico” dei Queen, fino ad allora mostrato con parsimonia, prese totalmente il sopravvento. Qui i punti di riferimento sono Giorgio Moroder e Jean-Michel Jarre, immersi in un cafonissimo (ma godibilissimo) contesto sci-fi. La cupa e angosciante “Ming’s Theme (In the Court of Ming the Merciless)” e il frizzantino synth-pop da videogame “Football Fight” le due tracce da recuperare.



STAYING POWER

BODY LANGUAGE

1982, da “Hot Space”

Voglio scusarmi con tutti, ma non è proprio possibile parlare del rapporto tra Queen e sintetizzatori senza menzionare “Hot Space”. Il disco più brutto partorito dalle menti di Mercury, May, Deacon e Taylor è anche l’unico in cui la matrice elettronica/dance è quasi sempre in primo piano. Un album composto da tanti cloni malriusciti di “Another One Bites The Dust” che rischiò di far sbandare definitivamente la band, già  sull’orlo di una crisi di nervi a causa di rapporti personali poco idilliaci. A salvare il salvabile, per fortuna, c’è la meravigliosa “Under Pressure”, scritta ed eseguita insieme al compianto David Bowie. Noi però facciamoci del male e andiamo a recuperare due “perle” da dancefloor come “Staying Power” e “Body Language”, che almeno hanno dei giri di synth bass apprezzabili.



RADIO GA GA

MACHINES (OR BACK TO HUMANS)

1984, da “The Works”

Arriviamo al 1984. I Queen si riprendono dallo scivolone di “Hot Space” dando alle stampe “The Works”, probabilmente uno dei loro lavori più sottovalutati. Per la prima (e unica?) volta nella storia della band, chitarra elettrica e sintetizzatori sembrano davvero andare a braccetto. In “Radio Ga Ga” e “Machines (Or Back To Humans)” tutto gira alla perfezione: uno scontro tra uomini e macchine che porta alla nascita di una nuova idea di rock sintetico e robotico. A dargli un’anima, inutile dirlo, la voce unica di Freddie Mercury.



DON’T LOSE YOUR HEAD

1986, da “A Kind Of Magic”

“Don’t Lose Your Head” è una delle tante tracce incluse in “A Kind Of Magic” scritte appositamente per la colonna sonora di “Highlander”.  Il riferimento al film diretto da Russell Mulcahy è evidente sin dal titolo: l’unico modo per uccidere una volta per tutte l’immortale Connor MacLeod (interpretato da Christopher Lambert) è staccargli la testa. Da qui il consiglio di Freddie Mercury a tenersela ben salda sulle spalle. A rendere più convincente il messaggio ci pensa l’incalzante riff di sintetizzatore che si ripete senza sosta per quasi tutti i quattro minuti e quaranta secondi del brano, un discreto esempio di synth-pop spigoloso e dark che deve più di qualcosa agli Eurythmics.

THE INVISIBLE MAN

1989, da “The Miracle”

Il guilty pleasure targato  Queen. Universalmente riconosciuta come una delle canzoni più brutte mai realizzate dalla band, “The Invisible Man” è in realtà  una gustosissima cafonata dal piglio danzereccio veramente irresistibile. Il solito straordinario giro di basso di John Deacon, i piccoli interventi di tastiera minimali ma efficaci e i coretti super-effetati di Roger Taylor rendono questo singolo estratto da “The Miracle” uno dei più fortunati esperimenti dance pop mai portati a termine dal regale quartetto britannico, nonostante l’indiscutibile somiglianza con “Ghostbusters” di Ray Parker Jr. Da segnalare infine il pirotecnico sfoggio virtuosistico di Brian May, qui assoluto protagonista con un deragliante assolo di chitarra elettrica.