Dopo essersi dedicato nell’appena conclusosi 2018 principalmente all’attività  di supporto e produzione per   Micheal Chapman (suo vecchio idolo), ritorna Steve Gunn  a dar seguito al  proprio  “Eyes on the Lines” del 2016.

L’album è stato prodotto da James Elkington (già  chitarrista per Jeff Tweedy e negli Eleventh Dream Day)  e annovera, tra gli altri, gli apporti di  Tony Garnier (già  produttore musicale di Bob Dylan)  al basso  e di Daniel Schlett alla registrazione.

Si dovesse scegliere un’arte diversa dalla musica per inquadrare l’operare di Steve Gunn, questa sarebbe la scultura: il chitarrista americano è un maestro a dare forma alla materia lavorando e modellando con delicatezza ed intelligente calma elementi semplici, genuini e naturali,  rinvenienti da emozioni e pulsioni profondamente umane, date da eventi che accadono e persone che si incontrano lungo il cammino.

Lavorando di tornio e cesello, senza intagliare, senza scalpello, senza violenza.

Sentimenti e scenari  che troviamo  nel vibrato folk dell’opener “New Moon”, primo estratto dell’album, o  nel roots rock lieve e melodico di “Vagabond” arricchito dai cori di Meg Baird (Espers, Heron Oblivion, presente anche in “Luciano” e “New Familiar”), o ancora e soprattutto in autentiche dediche come “Stonehurst Cowboy”, rivolta al padre morto di cancro poco dopo l’uscita del precedente “Eyes on the Lines”: un rapporto, quello padre/figlio, che la malattia è riuscita a rendere più forte di quello che era stato precedentemente, a detta dello stesso Gunn.

Il tutto con un gusto anni 60 e 70, tra leggera e sognante psichedelia, echi, ed un sempre riconoscibile midollo folk rock,  che emerge anche in questo quadro di ricercato ma efficace minimalismo rotto soltanto da alcune code di chitarra elettrica che ci riportano anch’esse indietro di decenni nel più classico cantautorato made in U.S.A.: provare per credere pezzi come “Lightning Field” (che prende simbolicamente spunto dall’artista Walter De Maria e dalla sua installazione permanente nel deserto del New Mexico), la delicata e mite “Morning is Mended” o la più  strumentalmente e compositivamente adorna “Paranoid” in chiusura.

Un album che scorre liquido, ma al quale non si può non riconoscere assoluta solidità  strutturale.  Con la sensazione diffusa che per il newyorkese non ci sia assolutamente ansia da risultato o  bisogno di impressionare a tutti i costi, trasparendo invero una sincera naturalezza,  senza esagerazioni,  e una sobria maestria lato sia compositivo che di esecuzione.

Con questo  album erano molti ad aspettare Steve Gunn alla definitiva conferma. C’è stata? Di più: con “Unseen in Between” Steve Gunn acquisisce ulteriore valore assoluto nel novero dei più influenti  cantautori della sua generazione.

A modo suo, senza strafare, con semplice ed elegante spontaneità .

Photo Credit: Constance Mensh