Scrivere del nuovo disco del cantautore siciliano Antonio Di Martino (noto come Dimartino) può risultare sin troppo facile,   vista la sua aura da perfetto prodotto pop.

Pop di quello finissimo, si intende, laddove il riferimento principale delle dieci canzoni che compongono “Afrodite”,   sembra portarci al Battisti epoca pre – Anima Latina, o giù di lì. Ma al di là  di quello che può essere un paragone ben ingombrante, nonchè tirato in ballo già  nel recente passato nel caso di artisti come ad esempio Iosonouncane, vale per dare l’idea del livello raggiunto dal trentaseienne giunto ormai al suo quarto disco solista.

Già , perchè Dimartino sin dal singolo anticipatore “Cuoreintero”, aveva fatto presagire un cambio di rotta, non soltanto nei suoni e nel modo di veicolarli, ma proprio nell’interpretazione, nell’attitudine. Sensazione poi confermata e, anzi, amplificata dall’innodica “Giorni buoni”, una delle tracce più convincenti e accattivanti, dal sapore anni ’70 .

Che parte del merito di questo scarto qualitativo in avanti sia da ascrivere a quel Matteo Cantaluppi che in fase di produzione aveva già  saputo dare il suo tocco decisivo per canalizzare e infine far decollare nomi in auge come Thegiornalisti ed Ex Otago, è fuor di dubbio, ma è altresì ovvio che un desiderio di rinnovamento sia in primis partito proprio dall’autore.

Sin dal primo ascolto infatti si coglie il cambiamento netto con i pur buoni dischi precedenti, che già  avevano evidenziato una capacità  narrativa e di scrittura spiccata e un culto per i piccoli particolari, a caratterizzare brani per lo più intimisti e dai toni delicati. Permane in “Afrodite” (a simboleggiare la ricerca del bello), lo stile del Nostro, ma a mutare è l’intero registro sonoro.

Aumentano le aperture ariose, non solo negli efficaci ritornelli di canzoni   come la già  citata “Giorni buoni” o una “Pesce d’aprile” che potrebbe con la sua melodia killer seriamente candidarsi a divenire una hit, ma anche nella costruzione stessa di armonie efficaci e coinvolgenti. A prevalere sono infatti le note alte e gli accordi in maggiore, spesso però in contrasto con quanto enunciato nel testo  (anche in quegli episodi più ambivalenti e sinistri   come”Ci diamo un bacio” e “Liberarci dal male”, vicini in scaletta e caratterizzati entrambi da sonorità  eighties).

Sono chiaramente pop a livello musicale anche “La luna e il bingo”, dai toni suadenti, l’intensa e paradigmatica “I ruoli”, sincero e accorato manifesto esistenziale, e la conclusiva e coinvolgente “Daniela balla la samba”, anche se gli umori e le istanze testuali vanno a contrastare con la vivacità  e il brio delle parti musicali, non tradendo la poetica che l’ha contraddistinto sin qui.

Insomma, è sempre il Dimartino che avevamo iniziato ad apprezzare sin dal convincente esordio “Cara maestra abbiamo perso”, di stampo generazionale, ma la strada compiuta nei quasi 10 anni da allora, ha fatto il suo corso e quello che ci ritroviamo è un autore assolutamente consapevole dei suoi mezzi espressivi.

Sicuro di osare nell’alzare l’asticella, spostando il versante musicale da un apparato principalmente di stampo cantautorale a un pop di qualità  addirittura pregevole se lo si accosta a un episodio come “Due personaggi”, in grado di commuovere con le sue liriche agrodolci e versi che si stampano nella mente, colpendo dritto al cuore: “Siamo due personaggi in cerca d’amore /ma viviamo nel dramma di una vita normale/la casa, i soldi, le cose da cambiare, le tende da lavare /Ci svegliamo di notte dentro ad un sogno sbagliato /ci tiriamo le pietre senza avere peccato /ma poi facciamo finta di niente ci ritroviamo sempre, sempre sempre, sempre”.

Non è l’unica canzone a emergere con la forza evocativa del suo testo:   anche le parole che riecheggiano nella lenta, fiabesca “Feste comandate” non possono lasciare indifferenti, specie quando si riferisce alla nascita della figlia (“Pioggia tra le mani, tempeste colorate/Io tutto questo amore, sono sincero, no/non l’avevo previsto, non l’avevo previsto/Feste comandate, sguardi senza tempo/Io tutta questa luce, sono sincero, no/Io non l’avevo mai vista, non l’avevo mai vista”).

Quando alla fine di un disco non sai esattamente se siano più forti i testi o le musiche, beh, forse si è davvero dinnanzi a un disco che ha dei grandi meriti, laddove in ambito pop, ma anche e soprattutto in ambito indie, spesso le buone intenzioni non vanno a braccetto con i risultati, e ciò che si ascolta scorre veloce e può al limite intrattenere e poco altro.

In questo disco invece Dimartino colpisce nel segno, ottenendo un connubio davvero intrigante tra i due versanti (narrativo e musicale), finendo con il coinvolgere l’ascoltatore con musiche frizzanti, addirittura a tratti ballabili, ma disseminando al contempo potenti versi tra le pieghe di tanta accattivante bellezza sonora.

E in questo senso è un cantautore sui generis, che non ha bisogno di essere (inutilmente) verboso per trasmettere il proprio mondo interiore.