Le radici per la propria terra, l’inclinazione al viaggio. Due concetti apparentemente in antitesi, ma chi è nato sul mare non potrà  che confermare come non lo siano.

E questo sembrano volerci comunicare anche i C’Mon Tigre, collective guidata da un duo (anconetani, con base operative a Bologna – pare, visto il riserbo e il mistero attorno ai quali vogliono avvolgere la propria identità ) al loro secondo lavoro sulla lunga distanza dopo l’omonimo album di debutto del 2014 che aveva suscitato non poco interesse.

L’album è stato  presentato, appunto,  come un viaggio nelle proprie e verso le altre tradizioni  in cui alla componente audio si accompagna quella visual grazie al lavoro di fotografi, illustratori, street artists  come il mitico Harri Peccinotti, Ericailcane, Mode 2 ed altri che hanno curato il booklet di oltre 80 pagine compreso nell’edizione speciale del disco, mentre a livello sonoro si avvale della collaborazione di Danny Ray Barragan aka DRB, Mick Jenkins ed altri ancora.

L’avventura esplorativa dei C’Mon Tigre riparte da “Guide To Poison Tasting” e il suo jazz calmante dal sapore retrò che si snoda tra ottoni e le curve di chitarra fino a deragliare in frenetiche percussioni tribali; avanti con “Gran Torino” ed “Underground Lovers” e i loro accenti esotici, funky ed afro, e le distorsioni vocali da pianeti elettronici, scivolando per i ritmi sincopati di “808” che ci riporta in ambienti più oscuri e vicini al trip-hop (e dedicata allo scomparso Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax)  o a quelli  da breakbeat elettrolitico della già  diffusa “Behold the Man” (con relativo video curato da Sic Est).

Il tutto scorre ancora, tra saliscendi tortuosi ma con incedere lento e semifluido, tra l’ambientale synth-jazz di “Paloma”, quello di “Quantum of the Air” e ancora quello ad andatura più sostenuta e tribale della title track “Racines”, per poi allargarsi come nube di vapore nel funk-soul di “As-tu ètè à  Tahiti?” e rarefarsi completamente nella chiusura di “Mono No Aware 物の哀れ”.

Più moderno e strutturato dell’esordio, “Racines” nel suo essere contorto, composito e sperimentale, porta con sè i crismi del viaggio a metà  tra terreno e metafisico, materiale ed astratto: riesce a prenderti con facilità , suadente, senza stordire o stancare nonostante un abito sonoro che alla fine appare ben definito nella sua multiformità , e sembra essere nato apposta per la sua dimensione live, dove suoni ed immagini potranno incontrarsi e portare con sè l’ascoltatore/spettatore in questa escursione allo stesso tempo curvilinea e panoramica, epidermica e contagiosa.

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