“Pink Flag”, “Chairs Missing” e “154”. I primi tre album prodotti dagli Wire, pubblicati tra il 1977 e il 1979, camminano lungo un unico, straordinario percorso creativo. Ascoltandoli uno dietro l’altro, è possibile cogliere in tutti i suoi magnifici dettagli il fulmineo ma ragionatissimo processo di evoluzione che portò la band di Londra ad abbandonare la furia punk ultra-minimalista degli esordi per approdare alle gelide fantasie new wave della precoce (ma temporanea) fine.

Una crescita entusiasmante, interrottasi proprio sul più bello. O meglio, su uno dei più belli: per molti appassionati, il trittico di classici dati alle stampe da Colin Newman e soci a inizio carriera forma un blocco unico. Intoccabile, indivisibile e indiscutibile nella sua interezza. Il fascino cervellotico e dark delle tredici tracce contenute in “154”, tuttavia, sfugge a qualsiasi tipo di classificazione: impossibile o quasi considerarlo parte di un insieme maggiore. Il tratto innovatore è talmente marcato da permettergli di differenziarsi, svettando in alto come un faro in mezzo al mare.

Il desiderio di sperimentare è sempre stata una caratteristica intrinseca alla natura degli Wire, ma qui si va davvero oltre. Qui si distrugge per poi immediatamente ricostruire: il disfacimento e il continuo mutare di un’idea di punk già  oltremodo contaminata è il centro stesso dell’opera. La musica di “154” è letteralmente in movimento: l’obiettivo principale della band è andare avanti. Guardare a ciò che viene dopo il punk: il post-punk, naturalmente. E farlo alla maniera di un gruppo di ex studenti sbucati fuori da un’accademia d’arte: privilegiando i colori.

Ogni piccola sfumatura, anche quella più impercettibile, è rilevante. Riempie il disegno e gli dà  vita. La canzone in sè e per sè è solo uno scheletro – materiale sonoro da cesellare come una scultura, come scrisse una volta il critico britannico Simon Reynolds. Sono i suoni a fare il brano, non le strutture. Sono i tappeti dronici di tastiere e chitarre a far calare le tenebre sulle note glaciali di “I Should Have Known Better”. è il basso tonante e ossessivo a infondere nervosismo al tormentatissimo punk di “Two People In A Room”.

“The Other Window”, “40 Versions” e “Indirect Enquires” procedono in solenne lentezza nelle nebbie di un incubo fatto di dissonanze, echi, scricchiolii alieni, intrecci di voci e urla disperate. I guizzi psichedelici e gli interventi di archi di “A Mutual Friend” ci portano dalle parti dei Velvet Underground, mentre dietro al profondissimo timbro di voce sfoggiato dal bassista Graham Lewis in “Blessed State” si cela l’influenza del David Bowie berlinese.

Che si tratti di piccoli tributi ai loro maestri? Può darsi. Sta di fatto che gli Wire di “154” non citano quasi mai il passato, se non inserendo qua e là  alcuni spunti melodici rubacchiati dal Brian Eno solista degli albori (quello di “Here Come The Warm Jets”, tanto per intenderci). I brani più tradizionalmente pop del disco, “The 15th” e “Map Ref. 41 °N 93 °W”, sono un eccellente esempio di questa tendenza.

Appena il quartetto decide di sfoderare l’artiglieria pesante, però, qualsiasi ombra di dèjà -vu viene spazzata via. Lo studio di registrazione si trasforma in un laboratorio scientifico e il post-punk si tinge di avanguardia. E così, tra anticipazioni di Cure (“On Returning”), mostruosi incroci ambient dal suono gigantesco (“A Touching Display”) ed esperimenti industrial (“Once Is Enough”), gli Wire scatenano in totale libertà  il loro genio artistico. E si consegnano definitivamente alla storia del rock.

Wire ““ “154”
Data di pubblicazione: 1 settembre 1979
Tracce:  13
Lunghezza: 44:41
Etichetta:  Automatic
Produttore: Mike Thorne

Tracklist:
1. I Should Have Known Better
2.  Two People In A Room
3. The 15th
4.  The Other Window
5.  Single K.O.
6.  A Touching Display
7.  On Returning
8.  A Mutual Friend
9. Blessed State
10.  Once Is Enough
11. Map Ref. 41 °N 93 °W
12.  Indirect Enquiries
13.  40 Versions