Sfatiamo subito un mito: i Dr. Feelgood non erano nè tradizionalisti, nè anti-tecnologici. La loro totale avversione per le tendenze musicali più in voga nella metà  degli anni settanta ““ progressive e glam in primis ““ non aveva nulla a che fare con un qualche tipo di recondito desiderio di tornare alle radici del rock. Semplicemente, non erano grandi fan delle produzioni post 1965.

E il vociferato fastidio per l’alta definizione, tanto sbandierato dalla United Artists per scopi promozionali? La registrazione in mono dell’album d’esordio “Down By The Jetty” non fu snobisticamente stabilita in partenza, bensì arrivò dopo una serie di risultati insoddisfacenti ottenuti tramite l’impiego della ben più raffinata stereofonia.

L’unico vero obiettivo del quartetto guidato dal perennemente incravattato Lee Brilleaux? Riuscire a mettere su nastro un suono che fosse il più possibile fedele ai loro infuocati concerti. Un suono ruspante ma chiaro, scevro di fronzoli e praticamente privo di sovraincisioni. Sporco come le bettole che ospitavano i live di questi scalmanati ragazzi dell’Essex che, all’alba dell’era punk, si misero in testa di dar vita a un rhythm and blues intriso di birra, fumo di sigaretta e odore di fritto.

Grezzo, viscerale e carico di una marcissima energia alcolica: questo disco è diventato, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua pubblicazione, il simbolo stesso di quel pub rock che avrebbe trasmesso i geni del blues agli artisti più disparati. Sarebbe letteralmente impossibile fare un elenco di coloro che, dal 1975 in poi, hanno indicato “Down By The Jetty” come una primaria fonte di ispirazione. Tra questi vi sono pesi massimi del calibro di Paul Weller, Joe Strummer, Andy Gill, Richard Hell, Bob Geldof e persino John Lydon.

Tutti loro si innamorarono della genuinità  e della strafottenza dei Dr. Feelgood; padrini del punk che del punk non ebbero davvero nulla, se non quell’aspetto poco rassicurante tipico di chi ha trascorso un po’ troppe serate rinchiuso in qualche birreria di quart’ordine a Canvey Island. Spacconi sì, ma con classe. Non tanto per il look impeccabile – degno dei gangster pulp dei film di Quentin Tarantino ““ quanto per il loro approccio alla musica.

La band non era in alcun senso raffinata, ma aveva un gusto incredibile. Nonostante l’enorme debito con la tradizione made in USA, a emergere con chiarezza erano sempre le nobili origini britanniche. Una sezione ritmica essenziale e precisa (il bassista John B. Sparks e il batterista John Martin) costruiva solide strutture R&B/blues/rock and roll per i vocalizzi aspri di Brilleaux e per l’incredibile chitarra di Wilko Johnson, il cui originalissimo stile secco e fragoroso (cit. Simon Reynolds) fece proseliti. Per farvi un’idea andate a sentirvi i Gang Of Four, o uno qualsiasi degli innumerevoli gruppi sbucati fuori nella non remotissima epoca del revival garage (The Strypes e The Hives su tutti).

Un’eredità  non da poco per quattro brutti ceffi che, pur non avendo inventato nulla di nuovo, hanno lasciato un segno molto importante nell’evoluzione del rock targato UK.   Da riscoprire.

Dr. Feelgood ““ “Down By The Jetty”
Data di pubblicazione: 14 gennaio 1975
Tracce: 13
Lunghezza: 41:25
Etichetta: United Artists
Produttore: Vic Maile

Tracklist:
1. She Does It Right
2. Boom Boom
3. The More I Give
4. Roxette
5. One Weekend
6. That Ain’t The Way To Behave
7. I Don’t Mind
8. Twenty Yards Behind
9. Keep It Out Of Sight
10. All Through The City
11. Cheque Book
12. Oyeh!
13. Bony Moronie/Tequila