Un’enorme massa di immondizia galleggia sulla superficie dell’Oceano Pacifico, nel punto più distante da qualsiasi terra emersa. Un’isola artificiale sbucata fuori quasi dal nulla, nata dal susseguirsi di una serie incalcolabile di piccoli e grandi disastri ambientali. Spiagge incantevoli create da un viscido cumulo di buste di plastica e bitume fuoriuscito da mastodontiche petroliere: è su queste sponde che Damon Albarn e il disegnatore Jamie Hewlett decisero di spedire la loro band virtuale, i Gorillaz, in occasione dell’album “Plastic Beach”.
Fu proprio questo lavoro a trasformare il progetto del frontman dei Blur e del papà di Tank Girl in qualcosa di più di un semplice cartoon musicale ““ per quanto già fortunatissimo dal punto di vista commerciale. Lasciati alle spalle l’esordio senza titolo, il best seller “Demon Days” e l’adattamento teatrale di “Journey To The West”, i due britannici iniziarono a programmare il futuro dei loro quattro avatar animati. La terza fase dei Gorillaz si aprì all’insegna di un sostanziale restyling artistico, motivato principalmente dalla volontà sia di Albarn, sia di Hewlett di allargare i confini di un gruppo cui la dimensione immaginaria cominciava ad andare un po’ troppo stretta.
Un leggero rinnovamento che finì per diventare una specie di rivoluzione: il coinvolgimento di un numero spropositato di illustri collaboratori, infatti, rese “Plastic Beach” un’ambiziosissima opera corale. Volete qualche nome? Ve li presento in rigoroso ordine di apparizione: Snoop Dogg, Bashy, Kano (rapper londinese dal discreto successo in patria, da non confondersi con l’omonimo personaggio di Mortal Kombat), Mos Def, Bobby Womack, Posdnuos e Trugoy dei De La Soul, Gruff Rhys, Yukimi Nagano, Mark E. Smith, Lou Reed e, per chiudere in bellezza, Mick Jones e Paul Simonon dei Clash.
Tredici ospiti per sedici tracce in cui la componente elettronica, già elemento chiave dei precedenti dischi dei Gorillaz, è quanto mai in evidenza. Si palesa sotto molteplici forme: dal funk sintetico e byrniano di “Rhinestone Eyes” al gelido soul kraftwerkiano di “Stylo”, passando infine per il velo di tristezza che ricopre la dolcemente pop “On Melancholy Hill” e il beat inquieto di “Glitter Freeze”. Ancora più in risalto è però la fantasia davvero incontenibile di Damon Albarn, talmente straripante di idee da non riuscire, in alcuni passaggi, a mettere a fuoco una creatività febbrile e in costante movimento.
La spiaggia dei Gorillaz non è disseminata di plastica ma di una confusione di frammenti musicali, sparsi qua e là senza seguire un criterio preciso; dalla sabbia emergono brandelli di hip hop, trip hop, electroclash, lounge, art rock e world music, a metà strada tra India (“White Flag”) e Cuba (“Sweepstakes”). A volte, come già detto, sono assemblati tra loro in maniera forse un po’ inconcludente: canzoni interessanti quali “Superfast Jellyfish”, “To Binge” e “Some Kind Of Nature”, detto molto francamente, hanno un che di incompiuto.
Ormai è risaputo: per il cantante dei Blur, tenere sotto controllo un estro a dir poco vulcanico non è mai stato facile. In “Plastic Beach”, pur lasciando spesso e volentieri il microfono in altre mani, occupa la scena come fosse un geniale maestro di cerimonie. Compone, arrangia, produce, fa da direttore d’orchestra”…e con quali risultati? Nonostante qualche colpo a vuoto, direi eccellenti: a distanza di dieci anni dall’uscita, questo disco continua a rappresentare un’inesauribile fonte di spunti per decine e decine di esponenti della scena pop più elettronica e contaminata. Un traguardo invidiabile per un gruppo che in realtà neanche esiste.
Gorillaz ““ “Plastic Beach”
Data di pubblicazione: 3 marzo 2010
Tracce: 16
Lunghezza: 56:46
Etichetta: Parlophone
Produttori: Gorillaz
Tracklist:
1. Orchestral Intro
2. Welcome To The World Of The Plastic Beach
3. White Flag
4. Rhinestone Eyes
5. Stylo
6. Superfast Jellyfish
7. Empire Ants
8. Glitter Freeze
9. Some Kind Of Nature
10. On Melancholy Hill
11. Broken
12. Sweepstakes
13. Plastic Beach
14. To Binge
15. Cloud Of Unknowing
16. Pirate Jet