Sono abbastanza stufo di sentire da più parti certi commenti riguardo a band che farebbero meglio a ritirarsi in quanto non hanno più nulla da offrire avendo già  fatto il loro tempo ovvero hanno già  prodotto materiale di qualità  non più ripetibile. Allora, se in linea generale probabilmente l’assunto è vero, basti pensare agli U2 che non pubblicano un pezzo decente probabilmente da “Pop”, ci sono dei vividi esempi che non possono entrare in questa categoria. In questo caso mi riferisco ai sempre innovativi ed eterni Depeche Mode ma anche alla band di Eddie Vedder e soci.

Ci saranno in giro già  centinaia di recensioni su questa nuova fatica dei Pearl Jam, divise tra quelle che ne parlano con toni negativi, quelle che si esprimono con voti neutri per non perdere followers e chi invece ne parla in maniera entusiastica. Ecco, vi dico sin da subito che a parer mio “Gigaton” segna un cazzuto quanto sorprendente ritorno della band di Seattle.

L’highlander Vedder rappresenta l’ultimo baluardo di quel filone grunge iniziato negli anni novanta seppur con le dovute e giuste differenze. Le scorribande sonore che raggruppavano Nirvana, Alice In Chains, Soundgarden, per lo più di impronta post punk e new-metal, si contrapponevano alle sonorità  decisamente più radio friendly dei PJ, dotati di maggiore propensione ad un rock più melodico e meno rude.

Ebbene, questa caratteristica virtù in dote ai PJ è diventato il loro marchio di fabbrica e questo “Gigaton”, che non stupisce certo per innovazione, si innesta esattamente in quel percorso interrotto sette anni fa con”Lightning Bolt” nonchè con l’ottimo intervallo stand-alone “Can’t deny me” del 2018.

La longevità  dei PJ in questi 30 anni di carriera è passata per una duplice fase artistica, quelle che va dai primi tre album “Ten”, “Vs” e”Vitalogy” e la seconda da “Yield” fino all’ultimo citato “Lightning Bolt”   del 2013 laddove le sperimentazioni garage di “No Code” si pongono nel mezzo. Dopo una simile produzione, quindi, le aspettative sul loro undicesimo album sono man mano diventate in questi anni sempre più elevate.

“Gigaton” è il classico album che ci si aspetta dai PJ, un ennesimo viaggio spericolato tra le note di pure rock e ballate sopraffini, suonate come se non ci fosse un domani, un percorso di montagne russe tra fulmini e cieli sereni, un dna composto da dodici elementi arrangiati come si deve, che possano piacere o no.

L’antipasto del nuovo full-lenght è iniziato con “Dance of the Clairvoyants”, una hit che ha disorientato e fatto storcere anche qualche naso per quel sound di Talking Heads memoria carico di tastiere e psichedelia. Un brano che aveva fatto pensare inizialmente ad una svolta musicale della band ma che in realtà  rimane un isolato esempio delle virtù del gruppo, soprattutto di Vedder che può davvero intonare qualsiasi cosa.

Con il secondo singolo “Superblood Wolfmoon” si ritorna nei territori grunge, graffiante e imprevedibile con McReady che ci omaggia con un rude assolo a metà  pezzo mentre nel terzo estratto “Quick Escape” si stagliano potenti linee di basso di Jeff Ament sui sicuri riff di chitarra mentre Vedder racconta di un viaggio per “trovare un posto che Trump non ha ancora mandato a puttane” (“To find a place Trump hadn’t fucked up yet”).

Al posto dello storico Brendan O’Brien, questa volta la produzione è affidata a Josh Evans (che si è adoperato anche alle tastiere) il quale ha avuto il grande merito di dare una sterzata di freschezza alle sonorità  che pure restano ancorate al solito riconoscibile mood della band di Seattle.

Non cambia, quindi, nemmeno il biglietto da visita che è affidato alle dirompenti chitarre di “Who Ever Said” supportate dalla solita voce da vero rocker di Vedder che non appare nemmeno per un po’ stanco all’ombra dei suoi 55 anni. Il gioco tra Vedder e Cameron nel finale del pezzo è da urlo! Ed eccovi servito l’inno apripista per i live.

Dopo il trittico scelto come antipasto è il turno del primo brano in relax “Alright” uscito dalla mente di Ament che dall’intro in stile xilofono apre ad un melodia cupa e d’atmosfera che si congiunge alla perfezione con la successiva “Seven O’Clock”, brano mid-tempo più lungo del disco dove l’alternanza di chitarre acustiche ed elettrificate in stile folk fanno da supporto ai virtuosismi vocali di Vedder il quale pizzica ancora una volta Trump nelle parole: “Sitting Bull and Crazy Horse come forged the north and west/Then there’s Sitting Bullshit as our sitting president”.

Si ritorna in pieno territorio rock nella coppia “Never Destination” e “Take the Long Way”, con la prima orientata verso un rock blues dove invece la seconda intona un punk rock con un riuscitissimo refrain con tanto di assolo di chitarre a fare da eco alle picchiate di Cameron che ha siglato il pezzo.

Il turno di Stone Gossard, invece, si trova nella delicata e melodica “Buckle Up” intrisa tuttavia di parole di impatto come: “I got blood/Blood on my hands/The stain of/Of a human/I finally awoke/To my mother’s wrath/Call lights/Bed sores and sponge baths”.

L’album nel finale ci regala un turbine di ballate che iniziano con l’acustica “Comes Then Goes” di chiara matrice country sorrette dalle parole di Eddie probabilmente per il compianto amico Chris: “Where you been? Can I find/A glimpse of my friend/Don’t know where or when one of us left/The other behind”.

Ancora una base acustica sul brano firmato questa volta da Mike McReady, “Retrograde”, il quale si evolve nello scorrere dei minuti sorretto dal miglior refrain del disco semplicemente da pelle d’oca: “Stars align they say when/Things are better than right now/Feel the retrograde spin us round, round/Seven seas are raising/Forever futures fading out/Feel the retrograde all around, round”.

Il compito di chiudere il disco è affidata ad una solenne e nostalgica “River Cross” nella quale l’organo a pompa suonato da Vedder accompagna le sue profonde parole di riflessione, ancora una volta bagnate di politica: “While the government thrives on discontent/And there’s no such thing as clear/Proselytizing and profiting”.

“Gigaton” racchiude la scuola old style dei Pearl Jam, un album onesto, completo e di qualità  nel quale non mancano episodi memorabili (“Retrogade”) laddove anche nei momenti apparentemente più deboli (“Alright”) dimostra come siamo al cospetto di una delle migliori rock band di tutti i tempi. Mettetevi l’anima in pace, è inutile negarlo.

I Pearl Jam suonano rock e sono assolutamente lontani, per fortuna, dall’andare in pensione almeno fino a quando Vedder avrà  voce, quella irripetibile voce, e i suoi compagni di merende saranno in grado di solcare i palchi come trent’anni fa.

Suonala ancora Eddie.

Credit Foto: Danny Clinch