Ci sono voluti 5 anni per tornare ad ascoltare i nuovi sussulti del duo canadese dei Purity Ring. Il sophomore “Another eternity” non era riuscito a replicare l’ottimo debutto del 2012, “Shrines” e, in realtà , nemmeno questo pregevole “Womb” raggiunge quei livelli di elettronica intensa ed ipnotica.

Ma va bene così, perchè i due giovanissimi musicisti di Edmonton, in Alberta, trasportati dall’angelica voce di Megan James ripercorrono un sound di puro e semplice synth pop come lo si conosce, senza particolari colpi di scena se non forse per l’episodio più electro-pop, “Femia” o per le oscure tonalità  e i beat ben cadenzati contenuti di “Sinew” (il migliore) brani, entrambi, che evocano alla memoria mood recenti dei vari Grimes, Polià§a e congiunti, per usare un termine attuale.

Durante lo scorrere delle dieci tracce è agevole udire i perfetti e ricercati arrangiamenti di Corin Roddick la cui produzione si impernia soprattutto nei due singoli precursori del disco, “pink lightning” e “peacefall” ancorchè nei possenti bassi di “i like the devil” e nell’inquietante intro di “vehemence” probabilmente si vuole trasmettere un messaggio liberatorio, quasi di sfida, per cercare di scrollarsi di dosso quella sensazione di “nulla di nuovo sotto il sole”.

Infatti, anche in questo caso, ci troviamo in presenza di un classico esempio di diverse visioni dell’album. Chi lo ha ritenuto appena sufficiente e chi un esempio di genere. Personalmente ritengo che siano benvenute le differenti impressioni su di un lavoro, ma non posso essere d’accordo con chi non ha visto uno slancio nella rappresentazione di queste prelibate tracce.

Non si può andare al di sotto del sette, a parere di scrive, per questo lavoro ricco di personalità  e sostanza che, sebbene in effetti racchiude i Purity Ring in una sorta di comfort zone, è capace di mantenere un sound leggiadro, anche nelle tracce meno coinvolgenti “silkspun” o nella closing track “stardew”, laddove comunque è difficile nel complesso rinvenire passi falsi (forse solo in “almanac”).

Insomma, i brani suonano meravigliosamente bene, è facile farsi trasportare e questo succede sin dalla cupa opener “rubyinsides” e così per tutto lo svolgere dell’album che è un tipico esempio di come la musica prodotta risulta essere subito riconoscibile come segno di appartenenza.

Photo credit: Carson Davis Brown