Rieccolo Will Toledo, nome chiacchierato e financo amato, uno di quelli che dagli esordi lo-fi nella propria cameretta, chitarra elettrica in spalla, ne ha fatta di strada e raccolto di proseliti, fino all’applaudito “Teens of Denial”, Annus Domini 2016, ad oggi vero oro nel medagliere dell’americano.

Un ragazzo con la sua apparenza (e non solo?) nerd ai limiti del dimesso, la sua iperproduttività , la sua intraprendenza che si è ritrovato ad essere un artista che gode della stima di una pletora sempre più numerosa di fan in lungo ed in largo per il globo.

Ed al netto di moniker e maschere (qua spunta quella col nome di Trait, e gente che si spreca sul significato oggi di una maschera, figurato o meno) è sempre il buon Will a tenere le fila: con intraprendenza – come detto- sempre maggiore, tant’è che a questo giro non si fa mancare nemmeno un manifesto programmatico di matrice simil futurista.

Un album, questo, dalla lunga incubazione (inizio 2015-fine 2019) e con un gruppo vero e proprio che ormai si è consolidato intorno al padrone di casa (tra cui Andrew Katz, non solo batterista, ma co-produttore, seconda voce, piccolo tuttofare dell’elettronica e della fase di missaggio, che con Will ha anche in ballo il progetto 1 Trait Danger): registrato prima in maniera “tradizionale” tra chitarre e batteria, quindi tra interventi elettronici e sintetici, e che alla fine ha visto la luce come fusione delle due versioni. Con incastri che possono dirsi riusciti.

Nel calderone finisce diversa roba: flirta con il noise, con l’hip-hop (“Hollywood”), con la new wave 80’s più geniale, stropiccia e sporca il suono, si atteggia ad alieno per tornare sulla terra poco dopo (vedi la pillola “What’s With You Lately”), sciorina bordate di laser ed elettronica pura [“Deadlines (Thoughtful)”] ma non perde di carattere distintivo, di istinto rock melodico dalla trazione chitarristica, e la sua scrittura risulta ancora una volta peculiare, lucida e riconoscibile per una, a tratti cinica, sincera genuinità . E’ un album à  la Car Seat Headrest, nonostante tutto. Che prende buona quota per non perderla: e si svolazza ordunque con brani come la memorabile e contagiosa “Martin”, “There Must Be More Than Blood” che attacca graffiante, disturbata e nevrotica per assestarsi in un più calmierato incedere grazie alla voce del Nostro, o ancora con i bagliori luccicanti di “Life Worth Missing”.

Già  è un nome di rilievo, il ventottenne Will: quando la sua carica produttiva troverà  la perfetta incanalatura e il giusto filtro che ne garantiranno anche la qualità  in termini assoluti senza strafare con generi e minutaggio, ecco che diventerà  inesorabilmente il benchmark per chissà  quante nuove leve sparse per il mondo. Se non lo è, del resto, già  da un po’.