I R.E.M. sono stati (faccio fatica a parlarne al passato, lo ammetto) uno dei pochi gruppi davvero uniti e coesi nella storia della musica. Fatto ancora più significativo se pensiamo a un’esperienza iniziata giusto quattro decenni fa, tenendo valida la data del 5 aprile 1980 in cui si esibirono pubblicamente presso la chiesa episcopale sconsacrata di St.Mary.   Che all’epoca non si chiamassero ancora con questa sigla, poco conta: su quell’improvvisato palco mossero infatti i primi passi Michael Stipe alla voce, Peter Buck alla chitarra, Mike Mills al basso e Bill Berry alla batteria.

Un gruppo i cui componenti erano legati non solo da un percorso di vita condiviso, ma anche da un sincero affetto più volte manifestato nel corso degli anni. I quattro passarono indenni insieme quasi due decenni, tra successi e possibili tragedie (per fortuna solo sfiorate), fino alla decisione sofferta ma necessaria di Bill Berry di lasciare i compagni dopo aver rischiato la pelle a causa di un aneurisma. Se Stipe e compagni scelsero di proseguire lo fecero anche su una sua esplicita richiesta.

Eppure c’è stato un momento nella loro storia in cui i R.E.M. furono sul punto di sciogliersi: ciò avvenne poco prima dell’uscita di “Fables of the Reconstruction”, anche se la notizia all’epoca non fu trapelata e i Nostri ebbero infine il tempo di superare la crisi e portare a termine quelle sofferte sessioni di registrazione.

Riavvolgendo il nastro della memoria e tornando indietro di 35 anni, vediamo i R.E.M. alle prese con un primo cambio di direzione, vista la scelta di volare in Inghilterra per realizzare il disco agli ordini del produttore Joe Boyd, nome indissolubilmente legato ai primi lavori dei Pink Floyd (e a Syd Barrett in particolare) e al cantautore Nick Drake.

Il gruppo era reduce da due album (“Murmur” e “Reckoning”) in grado di imporli all’attenzione generale della critica e di appassionare schiere di fans attratti dalla loro musica così evocativa, misteriosa e incalzante, sia nelle parole e nelle melodie di Stipe, che nella musica memore della lezione dei Byrds ma legata anche alla corrente post punk, così lontana dalle mode musicali del momento.

Arrivati al terzo disco volevano provare a evolversi, da qui la scelta di lasciare il rassicurante ovile di Athens e tentare nuove strade ma le cose come detto non andarono granchè bene, e alla fine gli umori generali e il forte stress si riflessero inevitabilmente anche sul piano artistico.

Le 11 canzoni di “Fables of the Reconstruction”, titolo che nelle intenzioni del gruppo aveva un’ambivalenza e poteva essere anche letto al contrario, dandone così una differente chiave di lettura, suonano infatti più cupe e meste rispetto a quanto ci avevano abituato in precedenza. E, occorre dirlo, in questo non hanno aiutato molto una produzione non molto a fuoco e soprattutto il missaggio, da subito contestato dal gruppo stesso.

Giudizi che col senno di poi si sono rivelati sin troppo severi e che non rendono giustizia alla grandezza di un’opera che riesce ad assolvere bene il proprio compito. Un compito che per la prima volta nel loro caso aveva un’idea, non dico ambiziosa, ma comunque affascinante: creare un immaginario legato alle loro radici, fieramente ancorate al sud degli Stati Uniti, da loro percepito come status, luogo dell’anima e non solo geografico.

Non è un album didascalico, ci mancherebbe; anzi, proprio il tema trattato offre a Michael Stipe la possibilità  di spaziare su due piani, quello metaforico e quello più concreto, facendo ricorso a storie che rimandano direttamente in alcuni casi anche alla loro città  di appartenenza. Alludo ai deliziosi affreschi di “Life and How to Live It” e “Wendell Gee”, che traggono ispirazione dai ritratti di persone conosciute, a loro modo assai singolari e per questo molto interessanti agli occhi dei Nostri.

In tal senso lo possiamo considerare a tutti gli effetti un album folk, dai toni al più dimessi e proprio la delicata traccia che lo chiude – la già  citata “Wendell Gee” – è rivestita di quel perduto sapore agreste.

Il disco diventa quindi un contenitore straordinario e ricchissimo di suggestioni, rimandi e riscoperte. Un brano perfetto a sintetizzare le varie istanze che lo animano è sicuramente “Maps and Legends”, che si riaggancia idealmente a una tradizione di artisti erranti e spesso incompresi. E il pensiero non può che andare al reverendo Howard Finster, più volte citato, pastore battista molto vicino alla band e autore fra l’altro del progetto grafico della copertina del precedente “Reckoning”.

All’enigmatica e ombrosa “Feeling Gravitys Pull” spetta invece il compito di aprire la scaletta e subito da’ l’impressione che qualcosa sia cambiato, delineando il mood dell’intero lavoro su coordinate stilistiche diverse da quelle cui i R.E.M. ci avevano abituato.

Non c’è traccia infatti del pop fragrante o delle ficcanti sonorità  jingle jangle nel brano apripista, la cui atmosfera si fa greve sin dai primi cupi accordi di chitarra di Buck. In tutto questo  Stipe ci consegna uno dei testi più criptici del suo repertorio. A un certo punto fanno capolino dei maestosi archi, ed è anche questa una novità  rilevante nel loro sound: è una canzone indubbiamente spiazzante ma che trasuda fascino da tutti i pori, tanto da essere più volte citata fra le chicche nascoste della loro vasta produzione.

Tutto il disco è intriso di un senso forte di nostalgia e struggimento, con lo sguardo e la mente rivolti a un mondo arcaico, anche in episodi vivaci come la melodicissima “Driver 8” (dal testo assai descrittivo) o che ricordano musicalmente più da vicino i primi album (compresi i fantastici controcanti di Mike Mills), come “Green Grow the Rushes”, per molti la prima canzone con cenni politici da parte della band.

Nonostante l’accentuata introspezione che sfocia talvolta nel pessimismo, queste canzoni hanno saputo però confermare il grande talento del gruppo e non hanno scoraggiato i fans, che ne hanno colto lo sforzo e il grande valore.

“Fables of the Reconstruction”, pur non spalancando ancora al gruppo le porte del successo mainstream, confermerà  tuttavia il suo positivo trend di crescita, che di album in album vedeva raddoppiare i propri consensi in termini di vendite.

E’ singolare che un lavoro che voleva in qualche modo omaggiare una parte del sud degli Stati Uniti, uscito provato dalla Guerra Civile, sia finito per rappresentare perfettamente lo stato d’animo di una band che si stava allora deteriorando, ma in entrambi i casi si è poi di fatto assistito a una vera ricostruzione.

Come la loro amata Terra d’origine anche i R.E.M. hanno saputo infatti risollevarsi e riscrivere la propria storia. Una storia che, se non fosse per il concreto senso della realtà  dei suoi protagonisti, potrebbe essere raccontata veramente come una fiaba: quella di 4 ragazzi capaci, partendo dalla piccola Athens, di arrivare in cima al mondo senza per altro mai snaturarsi e cedere a lusinghe commerciali.

R.E.M. – Fables of the Reconstruction

Data di pubblicazione: 10 giugno 1985
Tracce: 11
Lunghezza: 39:44
Etichetta: I.R.S. Records
Produttori: Joe Boyd

Tracklist:
1. Feeling Gravitys Pull
2. Maps and Legends
3. Driver 8
4. Life and How To Live It
5. Old Man Kensey
6. Can’t Get There From Here
7. Green Grow the Rushes
8. Kohoutek
9. Auctioneer (Another Engine)
10. Good Advices
11. Wendell Gee