Si può capire qualcosa di un disco dalla sua copertina? Quella di “Purple Noon”, quarto album di Washed Out, richiama il tramonto sul mare di “Life of Leisure”, suo EP seminale del 2009. Se allora le tonalità  violette erano quelle sgranate e imperfette di una pellicola analogica, stavolta si tratta di un’immagine iperrealista, una foto scattata a Santorini difficile da distinguere da un rendering al computer. Al posto dell’enigmatica figura femminile, troviamo lo stesso Ernest Greene in pericoloso equilibrio sul muretto bianchissimo di una lussuosa villa con piscina, in perfetta simmetria sotto la luna quasi piena.

Musicalmente “Purple Noon” segna un ritorno alle radici della chillwave, un genere durato pochi anni e del quale Washed Out aveva scritto una delle pietre miliari: “Within and Without”, il suo primo LP uscito nel 2011. Negli anni seguenti aveva deciso di percorrere nuove strade, prima con “Paracosm” (2013) e poi con “Mister Mellow” (2017), senza riuscire a trovare un’evoluzione convincente a un’etichetta che sembrava stargli stretta. “Purple Noon” è invece il successore ideale di “Within and Without”: una palette sonora semplice e raffinata, fatta perlopiù di synth morbidissimi e percussioni sintetiche riverberate, al servizio della sua voce resa onirica ed impalpabile. Si tratta di musica elettronica suonata, sia quando Greene fa tutto da solo (nell’affascinante video per il Late Show di Stephen Colbert, dove suona tutti gli strumenti con un Ableton Push), sia quando si accompagna con una band (nella performance in diretta streaming organizzata per l’uscita dell’album).

All’opposto di quelle intelligenze artificiali capaci di generare infiniti album uguali a partire da un singolo pezzo, Greene manipola come un artigiano dei materiali freddi e inerti, fino a renderli vivi. La produzione è ancora più levigata che in passato e pesca per sua stessa ammissione dalla dance balearica degli anni 80: BPM bassi, influenze R&B e latine. Finiti gli anni del triumvirato chillwave (con Toro y Moi e Neon Indian) è difficile trovare dei paralleli nel panorama musicale contemporaneo. Tirando un po’ la corda ci avviciniamo da un lato all’elettronica ambient di Apparat (“Don’t Go”) e dall’altro al melting pot dei Khruangbin (la linea di basso di “Face Up”, la chitarra acustica di “Game of Chance”). Il baricentro rimane quello delle melodie vocali, malinconiche e dolcissime.

L’elemento nostalgico è sempre stato centrale nella musica di Washed Out, ma in questo disco sembra acquisire una valenza più autoreferenziale. Non solo la musica torna a giocare su terreni conosciuti, ma anche i testi “” che in “Within and Without” erano brevi ed evocativi, incentrati nel presente “” sono fin troppo didascalici e hanno sempre lo sguardo rivolto al passato, ad amori disintegrati dal semplice passare del tempo. “Face Up” e “Time to Walk Away” descrivono due facce di una relazione prossima alla fine. “Reckless Desires” una fatta di inganni e tradimenti. “Leave You Behind” si chiede se “Possiamo tornare dove abbiamo iniziato? / Possiamo trovare la scintilla che abbiamo perso?”, ma la risposta è sempre inequivocabile e negativa.

è interessante il contrasto con i due videoclip realizzati per “Time to Walk Away” e “Paralyzed” che giocano entrambi sulla sensualità  da sempre intrinseca nella musica di Washed Out e ci mostrano come Greene potrebbe ritrovare quella scintilla, se sapesse guardare di nuovo al presente, invece di concentrarsi sui rimpianti. “Haunt”, che si apre su una cassa lenta e angosciante come un battito cardiaco, cerca una catarsi senza trovarla: “Tutto ritorna di nuovo / Ricordi che avevo provato a nascondere / Mi tiene bloccato, non riesco a uscire”. Sembra di vedere Greene nell’immagine di copertina: impeccabile maestro di un genere, intrappolato dai ricordi, in bilico tra la comodità  di una jacuzzi e la profondità  del mare.

Credit Foto: Blair Greene