I Simple Minds sono noti ai più come icone pop anni ’80, inizialmente incardinati nel movimento dei “New Romantics”, epigoni di Human League, Duran Duran e Japan, e successivamente protagonisti dell’arena rock di fine decennio, alla rincorsa del successo planetario raggiunto dagli U2, cui spesso venivano accostati (non sempre con toni entusiastici). Resteranno comunque famosi per la hit mondiale “Don’t You (Forget About Me)” del 1985, un pop-rock per adolescenti, per poi svanire rapidamente a partire dagli anni ’90.

In pochi però ricordano la fase ancora antecedente, quella post-punk, composta dalla triade “Life in a Day”, “Real to Real Cacophony” (ambedue del 1979) e questo “Empires and Dance”, che oggi compie la bellezza di 40 anni. Se i primi due potevano essere considerati semplici esperimenti, col terzo i Simple Minds fecero centro: la loro versione prendeva l’abbrivio dal glam sofisticato dei Roxy Music e lo calava nelle glaciali arie robotiche dei Kraftwerk e di quella Berlino dove si stava edificando il mito di Brian Eno e David Bowie. Un particolare gusto melodico e futurista, sulla scia dei contemporanei Ultravox e Magazine, amalgamava il risultato finale in un art-rock danzabile per discoteche intellettuali, forse uno dei primi esempi di quel sottogenere che verrà  chiamato “coldwave”.

Il disco si apre col ballo frastornante di “I Travel”, il primo timido successo e solo un piccolo distillato della loro arte. Il gruppo era infatti baciato da un’indubbia perizia tecnica, in particolare la sezione ritmica composta da Derek Forbes (basso) e Brian McGee (batteria), capace di costruire palpitanti edifici sonori come “Today I Died Again”, “Celebrate” e “Thirty Frames a Second”. Le sperimentazioni della parte centrale, i racconti “ferroviari” di “Capital City” e “Constantinople Line”, pagano pegno alla “Trans Europa Express” dei Kraftwerk e ai Residents.

Tutto l’album cerca di costruire un discorso concettuale sul fascino e le contraddizioni dell’Europa centrale (o “mitteleuropa”, come era frequente riferircisi), abusando del richiamo a quel clima decadente da fin de siècle. Il problema dei Simple Minds è che non erano credibili come bardi del nichilismo, ma erano davvero immensi quando si trattava di costruire cattedrali di simboli stilistici fini a sè stesse. “This Fear of Gods” è il capolavoro di tutta la prima fase della loro carriera: il battito pulsante accoglie a sè una cascata di echi e riverberi, Jim Kerr sbraita frasi senza senso, Michael McNeil (tastiere) e Charlie Burchill (chitarra) ricamano geometrie ora dissonanti, ora arabeggianti. L’ipnosi dura 7 minuti ma potrebbe trascinarsi per altri venti.

I due leader Kerr e Burchill, ex compagni di scuola e amici di vecchia data, erano però ossessionati dal successo e non si degnarono di concentrarsi sulle intuizioni migliori: la loro discografia è piena di buoni album, ma non seppero mai perfezionare un capolavoro. Dopo “Empires and Dance” seguirono il doppio “Sons and Fascination / Sister Feelings Call” (1981), un ricercato synthpop atmosferico, e “New Gold Dream” (1982), unanimemente riconosciuto il lavoro migliore, sebbene fosse a tutti gli effetti un album pop. “Sparkle in the Rain” (1984) fu l’ultimo guizzo degno di nota (ed è il preferito di chi scrive), prima di una svolta commerciale che li permise – finalmente, direbbero loro! – di infilare 4 album consecutivi al primo posto delle charts del Regno Unito, portando così a termine un fiero ripudio delle origini punk. Questa svolta costò via via i pezzi migliori (Brian McGee uscì nel 1981, Derek Forbes nel 1985, Michael McNeil nel 1989) e la band si eclissò, mantenendo un certo seguito solo in patria e, curiosamente, in Italia.

“Empires and Dance” è comunque una testimonianza fondamentale per comprendere cosa fosse davvero il movimento post-punk e quanti dei suoi rivoli abbiano inseminato la musica alternativa degli ultimi 30 anni. E senza ombra di dubbio fa sorgere un forte amaro in bocca, perchè band con le qualità  tecniche, il magnetismo live, e l’inventiva dei Simple Minds potevano (e dovevano) spostare lo stato dell’arte ben più in là  di quanto effettivamente compiuto.

Data di pubblicazione: 12 settembre 1980
Registrato: Maggio-Luglio 1980, Rockfield Studios (Galles)
Tracce: 10
Lunghezza: 45:33
Etichetta: Arista
Produttore: John Leckie

Tracklist
1. I Travel
2. Today I Died Again
3. Celebrate
4. This Fear of Gods
5. Capital City
6. Constantinople Line
7. Twist/Run/Repulsion
8. Thirty Frames a Second
9. Kant-Kino
10. Room