Si fa un gran parlare d’Irlanda in ambito musicale ultimamente. Scena florida questa, ricca di vitalità , così come d’intensità  e di una carica rabbiosa che non oscura la capacità  di essere comunque limpidi e incisivi nei testi. Ma non c’è solo un taglio rabbiosamente post-punk che proviene dall’Irlanda. Le Pillow Queens, dopo una lunga gavetta, arrivano finalmente all’album d’esordio e non deludono le alte aspettative che avevamo su di loro.

Una fotografia sincera e intensa della realtà  che le circonda. 4 ragazze che tratteggiano un mondo che può anche stare stretto, con le sue contraddizioni e i suoi punti deboli, ma un mondo in cui bisogna esserci in modo attivo, uniti e pronti a dare il nostro contributo. I temi sono quelli importanti, quelli che scottano e per i quali ci si potrebbe bruciare a dire la propria opinione, ma la faccia le nostre non hanno mai smesso di mettercela. Le derive della religione, le donne, la questione dei gay e delle lesbiche e i loro diritti con tutta una finestra quindi che si apre sul mondo LGBTQI+, il problema della casa per le persone più giovani. Le Pillow Queens alzano il livello della discussione ma non si limitano a questo, musicalmente la band si dimostra in piena crescita, mantenendo quel tiro melodico che da sempre le caratterizza, aggiungendo però anche un lato che potremmo definire più oscuro e malinconico. La band ha sempre giocato sul contrasto tra testi duri e non così solari e un piglio sonoro accattivante e immediato: ora la tavolozza di colori abbraccia, anche nel suono, tinte più scure e tutto si sviluppa alla perfezione.
Gli anni ’90, gli ammiccamenti e la capacità  di essere accattivanti dei Pixies, l’abrasività  di PJ Harvey, le carezze e i tagli, i pugni sonori e le coccole di chitarre gentili: le Pillow Queens sanno gestire alla perfezioni questi ingredienti, con una padronanza melodica che crea immediata empatia.
Gli arpeggi morbidi di “Holy Slow” che poi cresce e ci scuote fino alle lacrime, i ritmi bassi di una toccante “Brothers” (gli affetti familiari dal lato maschile), il riff ficcante della micidiale “Handsome Wife”, i ritornelli che mi rimandano ai Longpigs di “Child Of Prague”, le montagne russe di “gay Girls” con quel coro finale esaltante e suggestioni anni ’50 per “Harvey”, le ambientazioni shoegaze di “Lifey”.

Quanta bellezza in un disco vario, coinvolgente e splendidamente sensibili.