Anche nelle migliori famiglie come IFB ci sono pareri discordanti su certi dischi. Di solito ci fidiamo e accettiamo il verdetto del nostro recensore, ma per certe uscite molto importanti e in grado e di dividere la critica, abbiamo pensato a un diritto di replica, una seconda recensione che potrebbe cambiare le carte in tavola rispetto alla precedente. A voi scegliere quella che preferite”…

Leggi ‘l’altra faccia’ della recensione di “Sign” dei Autechre

AutechreSign
[ Warp – 2020 ]
genere: elettronica

VOTO OTHER SIDE: 6

Un cerchio rosso su sfondo grigio e un acronimo sibillino (“SIGN”) che un significato ce l’ha ma Sean Booth e Rob Brown, titolari del progetto Autechre, non hanno voluto dire nulla a riguardo. Bocche cucite e quel pizzico di mistero che circonda quasi ogni nuova uscita del duo inglese da trent’anni a questa parte. L’album è il numero quattordici, composto tra il 2018 e il 2019 e finito di compilare nel lockdown di marzo / aprile.

Un’ora e qualche minuto di musica decisamente controversa, capace di generare pareri contrastanti in buona parte della stampa specializzata, al di qua e al di là  della Manica. Che cos’ha di strano “SIGN” visto che ha turbato così tanto gli animi? Nulla in realtà  o meglio: è un disco degli Autechre e molto banalmente può risultare indigesto, indifferente, brutale, incomprensibile o ben fatto a seconda di chi ascolta.

Vero sempre ma nel caso di Booth e Brown in modo particolare. Vivono ormai in un mondo tutto loro, impegnati da tempo nella ricerca spasmodica dell’equilibrio perfetto tra i suoni. Sforzo immane che li porta spesso ad alternare atmosfere rarefatte e nevrotiche, minimalismo e gigantesche ambizioni, fruscii e sintetizzatori, portando tutto all’estremo. Allungando pause, introduzioni, giocando a ripetere per un tempo che sembra infinito lo stesso gruppo di note per interromperlo poi di colpo.

Scultori sonori, programmatori più che musicisti, in “SIGN” sembrano voler testare la pazienza dell’ascoltatore mettendolo di fronte a sperimentazioni compatte ma non straordinarie, con rare melodie, frequenti momenti sincopati e un finale di cupa tensione. Un album che gli Autechre potrebbero aver fatto più per se stessi che per il pubblico.

Qualche dubbio in proposito lo ha espresso proprio Sean Booth in un’intervista al New York Times quando ha parlato di un disco catartico, che doveva essere sorprendente ma ha finito per diventare fin troppo prevedibile. Definizione perfetta, nessuna curva pericolosa e tanta sobrietà  per un duo mai così umano e fallibile.