E chi se lo immaginava? Sicuramente Giovanni Truppi, che seduto qualche poltrona dietro la mia non è riuscito a schermarsi dalla mia curiosità  da groupie (sì, ho spiato – si fa per dire… – tutto quello che ha detto, qui lo dico e qui lo nego, ma solo per sentirmi un po’ più suo amico!) e ad isolarsi nelle sue congetture pandemico-apocalittiche, mentre discuteva con il suo vicino di posto circa il fatto che sì, quello che ci apprestavamo a vedere e sentire sarebbe stato l’ultimo concerto per tutti noi, almeno per un po’ (di nuovo).

Quindi prendete questo resoconto del potentissimo live di Andrea Laszlo De Simone, che sabato scorso ha svegliato Bologna a carezze e schiaffi, come un racconto dagli ultimi giorni della Terra, una sorta di testimonianza coraggiosa di uno che, come me, ha avuto il coraggio – di questi tempi! – di infilarsi in un luogo pericolosissimo (un teatro! aiuto!), in mezzo ad un sacco di persone pericolosissime (fossero stati no-mask mi sarei assembrato con tranquillità  perchè quella è gente per bene, ma dico io, come fai a permettere un raduno di giovanissimi distanziati, mascherati e disposti ben ordinati su sedute limitate? E’ chiaro che, se si comportano così, hanno qualcosa da nascondere!) ad ascoltare musica pericolosissima (ma stiamo scherzando? In nove su un palco? Ma non poteva venire solo lui, suonare tutto in base come piace a noi, rigurgiti generazionali di un millennio apatico e semplicista?) mentre tutto intorno a noi, ignare vittime e carnefici del nostro supplizio, il mondo stava sgretolandosi di nuovo.

Mentre ero lì che aspettavo (origliando il buon Giovanni, che intanto aveva mollato i discorsi pandemici per parlare delle ultime spese a Le Roy Merlin) pensavo a tutto quello che stava succedendo intorno a me, perchè, di questi tempi, la sicurezza non è mai troppa; ho cercato intorno a me buchi gestionali, lacune organizzative, motivi di focolai: ho visto, invece, solo persone rasserenate dall’aver trovato, per una sera, un posto sicuro dove stare, un riparo dal freddo gelido di un inverno infinito, che deve ancora iniziare ma che dura ormai da quasi dieci mesi. Unico neo? Il ritardo di trenta minuti sull’inizio del concerto, per permettere agli spettatori paganti (fatti confluire all’ingresso dopo gli opportuni controllo del caso) di non accalcarsi in smisurate code fuori dal Manzoni, accomodandosi con calma e rispetto reciproco ai loro posti assegnati (quattro – 4! – sedute di distanza l’uno dall’altro) e sotto il vigile sguardo delle attentissime maschere.

Insomma, una pecca perdonabile, anzi, necessaria a rendere ancora più virtuosa la bolla antivirale costruita con minuzia quasi artigianale intorno al teatro bolognese; perchè sì, l’altra sera il Manzoni era di certo il posto più sicuro in cui passare un sabato diverso, custodendone il ricordo come l’ultima e resistente memoria storica di un popolo allo sbando perchè demotivato alla cultura, unico vaccino possibile contro la diffusione di facili risposte, di conclusioni senza fondamento, di violenza nelle strade. Ora, più che mai.

Sono le nove e mezza passate quando la carovana di Andrea Laszlo si presenta in avanscoperta al pubblico del Manzoni, un po’ in sordina e con il passo dinoccolato da “cittadini al di sopra di ogni sospetto” avvolti in completo anni Settanta utile a ricordare a tutti – sin dal vestiario – che gli indiani metropolitani non hanno smesso di impugnare le asce di guerra (e sopratutto, le chitarre). Sono in tantissimi sul palco, ben oltre il numero consentito per le feste private del nuovo DPCM: De Simone sta portando in tour il suo ultimo lavoro discografico, “Immensità “, e per farlo rispettando il suo lavoro e le nostre aspettative feroci ha bisogno di avvalersi, in aggiunta alla band, di un trio quasi cameristico, articolato in violoncello, viola e tromba/flicorno. Non bastava mettere in sequenza, così come fan tutti, le basi registrate? Sì. E intorno a questa scelta non essenziale di portare tutto dal vivo sta il senso di una resistenza etica, come detto prima, ben precisa. W l’inessenziale, in un tempo che crede nell’essenzialità  e chiude i teatri. Ora, più che mai.

Poche parole, una sigaretta che si accende nella penombra delle americane ad illuminare, di sghembo, il baffo alla Frank Zappa di Andrea Laszlo che sì, sul proscenio di quel palco ancora intorpidito sembra esserci arrivato da un passato seppiato un po’ come lui, meraviglioso negativo di un mondo musicale patinato, colorato, sì, ma a posteriori, per rendere accesi cuori spenti; la band non ha bisogno di segnali: tra le volute fumose delle sbuffate di De Simone si costruisce pian piano il cantiere funambolico di un concerto in continua costruzione, elevato per somma di elementi e sovrapposizione di intensità . Nel silenzio di un teatro ammutolito, prende forma la suite di “Immensità “, lasciando rotolare ogni traccia dell’EP senza soluzione di continuità  attraverso la platea fin sopra la galleria; un gomitolo musicale avvolgente, che chiama l’applauso ad ogni ricercatezza dinamica ma allo stesso tempo lo sopprime nell’afonia rispettosa di un pubblico allibito di fronte alla sacralità  del momento, impaurito dall’idea di rompere l’equilibrio magico con il volgare cicaleccio di un applauso.

Andrea non ha bisogno del compiacimento di noi spettatori per tenere la barra del suo errabondare musicale: lui viaggia per il gusto di viaggiare, perchè viaggiare è quello che sempre ha fatto, perchè il risultato ultimo (quello che si concretizza nelle pagelle musicali dei critici da osteria, come me) non gli interessa, come non gli interessano le risposte definitive, le definizioni che si fanno gabbie. Però, quando le mani degli spettatori non riescono più a contenere e dissimulare l’entusiasmo della condivisione, Andrea applaude con loro: mi piace pensare che lo faccia per gratitudine a noi che siamo lì, ai suoi musicisti, a sè stesso. Bisogna essere grati agli artisti, in questi anni bui, e al pubblico che sa ricordarsi come si fa ad essere pubblico, a partecipare a questa impresa titanica che è difendere la nostra umanità  dalle derive della notte. Ora, più che mai.

Insomma, Andrea fuma centoventi sigarette e sul palco percorre almeno una trentina di chilometri: “Immensità ” sospende, per quaranta minuti circa, lo scorrere diacronico del tempo, congelando in una sorta di epochè atarattica e catartica lo slancio implosivo dell’idolatrante, accorso per trovarsi di fronte il proprio idolo e ora alle prese con un sacerdote a petto nudo, che officia un rito antico e dimenticato. Ed è allo scadere di questi quaranta minuti che De Simone trasforma l’omelia in orgia, saggiando con esperienza da veterano il polso dei suoi fedeli; concluso il tripudio della suite, poche parole introduttive informano la folla ridotta di un Manzoni sold-out che, vista l’ossimorica brevità  di “Immensità “, la carovana freak avrebbe riproposto alla platea bolognese anche altri pezzi più datati, tratti dai lavori precedenti del cantautore.

Il risultato che ne deriva è un concerto nel concerto, un secondo tempo alla dinamite che spezza il silenzio attonito della prima parte e scioglie i nervi in un ascolto liberatorio, terapeutico, salvifico: a “La guerra dei baci” le poltrone cominciano a cigolare, sull’attacco di “Fiore mio” è il mio cuore a cedere. Oggi, sapersi emozionare rimane l’unico modo per entrare in contatto, a distanza, con chi come te riesce ancora a commuoversi. Ecco, alla distanza reciproca di quattro sedute Andrea è riuscito a farci toccare, confondere e compenetrare l’uno nell’altro, vicini a quel senso profondo di umanità  e bellezza che rende l’uomo Uomo. Nell’era del lockdown, liberarsi dalle condizioni, dalle pose e dalle posizioni (cit.) diventa salvifico. Ora, più che mai.

Il concerto dura due ore. Tantissimo, per le durate contemporanee, ma Andrea sapeva di avere a disposizione un pubblico attento, innamorato e curioso; il teatro Manzoni, per quel sabato sera, era diventato avamposto rivoluzionario, trincea meravigliosa in cui combattere l’ultima battaglia definitiva, quella più atroce, contro l’ignoranza e il silenzio. Andrea saluta la sua folla, ringrazia Edoardo Karim per avergli regalato, dieci anni fa, il primo kit da home studio (quindi, il buon Edo, lo ringraziamo sentitamente anche noi), prova a suonare un ultimo bis ma dalle quinte arriva la notizia che il tempo è finito. Non importa, noi eravamo lì per combattere una guerra, come detto sopra, per esserci e per sentire di esserci un’ultima volta, insieme anche se ignari. Noi, sabato sera, quella battaglia di cui sopra l’abbiamo vinta, per due ore di tempo.

Le luci si riaccendono, seguo con lo sguardo Giovanni Truppi che si avvia all’uscita, medito se importunarlo o meno, propendo per il no. Alla fine siamo stati vicinissimi, ci siamo conosciuti e ci siamo scambiati la pelle (come hanno fatto tutti i fortunati del Manzoni) per un paio d’ore; di certo, ora, non ha senso rovinare tutto con parole profanatrici e prosaiche, biascicate dietro al muro di una mascherina. Esco dal teatro, sono di nuovo in balia del mio nero millennio. Mi accendo una sigaretta (perchè caro Andrea, quanta voglia di tabagismo ci hai fatto salire, durante il tuo live…) e penso a quando potrò tornare a sentirmi al sicuro come dieci minuti prima.

Mi avevano detto che i teatri fossero luoghi pericolosi, che i concerti fossero focolai e che in Italia fosse impossibile organizzare uno spettacolo, un “assembramento in sicurezza”. Oggi, la cosa che mi fa più paura, è non avere più un rifugio per scappare dalle strade, piene di bruttezza, di rumore, di incivilità  e violenza, dalle persone piene di facili conclusioni, dai negazionisti per sport e dall’ironia del potere, che ci fa cantare dai balconi mentre, dietro le quinte dismesse di un settore al tracollo, la musica muore e i teatri chiudono. Non avere più rifugio per scappare da questo silenzio, che è sempre più assordante.

Torno a casa sapendo che casa non esiste più, ma esiste più che mai l’urgenza di difendere con i denti e le unghie il ricordo di una Patria diversa, fatta di anime capaci di sentirsi belle, vicine, vere per la durata di un concerto. Sabato sera ho riscoperto l’Uomo; Andrea, a quell’Uomo così meravigliosamente fragile, ha dedicato un disco.

Io, ad Andrea Laszlo De Simone, dedico tutta la mia riconoscenza, perchè a volte delle cose importanti, delle cose non essenzialmente essenziali, ci si dimentica.