Seguo Davide Tosches da molto tempo e ho sempre avuto modo di apprezzarne non solo l’innegabile talento e la passione che lo muove nel creare la propria musica, ma anche in qualche maniera il suo approccio con la materia e con l’altro, quel non sapersi prendere troppo sul serio in un mondo popolato da sedicenti artisti che di contro si atteggiano, pur non avendone motivo.

Quello che prende terribilmente sul serio è invece la sua arte, la composizione dei suoi lavori, tutto ciò che ruota attorno a un progetto, all’album come emanazione di un’urgenza espressiva, vivida e scalpitante.

Il cantautore piemontese infatti non è autore usa e getta, non scrive a comando, col pilota automatico, ma abbisogna di vedere accesa la scintilla dell’ispirazione, sia per un testo che per una melodia, per un arrangiamento o per l’inserimento di un particolare strumento che possa fargli ottenere l’atmosfera desiderata.

Giunto al quarto album, a distanza di ben sei anni dal precedente (l’intenso “Luci della città  distante”), il Nostro in questo lasso di tempo non è stato certo inoperoso ma appunto il suo diktat sembra imporgli di pubblicare solo quando è forte il senso di comunicare qualcosa, attingendo come fa solitamente dal suo mondo, finanche dal suo quotidiano.

Eppure, rispetto al passato, ci sono delle differenze tra i solchi di queste nuove canzoni: al di là  di una profondità  e di uno spessore emanati a ogni nota, si avverte in lui una consapevolezza nuova, che lo ha spinto ad evolvere il proprio percorso secondo un nuovo modus operandi.

I brani sono meno criptici, e nel parlare dei vari elementi della natura (luna, notte, pioggia, rami, stelle, soprattutto la terra) ha mescolato, o meglio inserito una dimensione più intima e personale, non rifuggendo l’amore.

I risultati più fulgidi di questo connubio (interiorità  + mondo circostante di riferimento) sono da trovarsi in quegli episodi più strettamente biografici, come la nostalgica e un po’ disillusa “Vent’anni”, in efficaci versi come: “Amico delle mie notti di nebbia/ricordi i discorsi sull’arte?/Inutili ma buoni per fumare/per sentirsi artisti senza dare/E non senti che parlano per noi/le foto dell’eterna giovinezza?”.

Nello stesso ambito spicca soprattutto la splendida ballata “Diana”, che trasuda un’indicibile dolcezza nelle parole “Chiedimi ancora tutto quello che non sai/sarò padre nel risponderti/e domani, sarai…/Grande come tutto il mondo che hai dentro/e una stanza vuota nella mia casa/e poi avremo…/Una dolce distanza, dolce distanza/dalle mani…”. Sarà  la suggestione ma in questa canzone ci sento in lontananza ma limpidi gli echi di Lucio Dalla.

Queste citazioni, senza nulla togliere alla bellezza intrinseca di brani anch’essi molto a fuoco musicalmente, e che ben definiscono l’idea alla base dell’album (ad esempio le paradigmatiche “Luna tra i rami”, “Pioggia” o la stessa title track), rappresentano lo zenit di un lavoro intrigante e ammaliante, che non cerca scorciatoie per giungere integro nei nostri cuori.

Colpiscono anche le soluzioni musicali, tendenzialmente più ariose e “terrene” (riconducendomi così al titolo dell’opera) rispetto ai pur interessanti dischi precedenti, volti com’erano a un cantautorato classico a tratti austero.

Pianoforti e chitarre la fanno sì da padrone –   e vestono al meglio canzoni dal taglio netto e deciso come l’iniziale “Nel nero di notte”, o l’evocativa “Luna tra i rami”, forte di una chitarra magnetica –   ma concorrono in fase di arrangiamenti anche l’inserimento felice degli archi (curati dallo stesso Tosches, coadiuvato da Andrea Ruggiero  presente al violino in tutti i brani) e di altri strumenti atti a conferire i giusti colori: dai synth che tratteggiano in modo onirico l’aria, al sassofono, all’organo (suonato da Massimo Rumiano) che dona solennità  a “Sulla terra” e “Stelle nascoste”, fino a caratterizzare in toto la conclusiva “Pioggia (Abbazia)”, in cui Tosches si cimenta egregiamente all’armonium.

La stessa “Pioggia” è presente anche in una versione più classica ed è giusto rimarcarne l’importanza anche perchè presenta il testo a mio avviso più interessante del lotto, con tocchi poetici non indifferenti: “Avremo l’estate dentro all’inverno/e fiori nel gelo sbocciare di notte/vedremo la luce delle parole/cambiare i colori dei giorni peggiori/saremo foglie che cadono lente/saremo amore dove non c’è niente”.

Ovunque lo si prenda, “Sulla terra” si manifesta in tutto il suo candore e la sua autenticità  e catalizza l’attenzione in ogni sua parte, a iniziare dal canto che appare sicuro e suggestivo, e anche in tal senso è evidente il salto di qualità  di Davide Tosches, il quale ormai non ha più motivo alcuno di “nascondersi”: un posto tra i cantautori più originali e interessanti di questo periodo storico spetta di diritto anche a lui.

Credit foto: Giorgio Violino