Trent Reznor e Atticus Ross, ovvero gli unici membri stabili dei Nine Inch Nails, hanno appena fatto uscire un album che potrebbe benissimo essere stato registrato ottant’anni fa dall’orchestra di Count Basie. Vi sembra assurdo? E in effetti lo è. Fino a poco tempo fa nessuno avrebbe mai potuto nemmeno immaginarsi questi due fanatici dell’elettronica mettersi alla prova con partiture per big band. Eppure è successo, e il risultato suona incredibilmente convincente. La folle ma geniale idea ce l’ha avuta il regista David Fincher, l’uomo dietro la macchina da presa per “Seven” e “Il curioso caso di Benjamin Button”. A lui va il merito di aver pensato all’ormai consolidata coppia di compositori cinematografici, con i quali collabora dai tempi del pluripremiato “The Social Network”, per la realizzazione della colonna sonora del suo ultimo film.

“Mank”, disponibile per la visione su Netflix, racconta la storia dello sceneggiatore statunitense Herman J. Mankiewicz, prendendo in particolare considerazione il periodo in cui concepì e scrisse il copione di “Quarto potere”. Per non allontanarsi troppo dallo spirito del capolavoro di Orson Welles, girato tra l’estate e l’autunno del 1940, Fincher ha deciso di replicare in tutto e per tutto lo stile della vecchia Hollywood. Una pellicola nuova ma dall’aspetto decisamente antico – dall’audio in mono fino al bianco e nero (con tanto di bruciature di sigaretta e graffi per aggiungere un tocco di vintage in più).

Un contesto tanto dèmodè quanto elegante nel quale le musiche di Reznor e Ross si collocano alla perfezione, nonostante siano state prodotte beneficiando delle tecnologie più all’avanguardia per superare gli ostacoli imposti dalla pandemia di COVID 19. I contatti con la modernità , tuttavia, si fermano ai microfoni sterilizzati e alle sessioni di registrazione in remoto. Per quanto riguarda tutto il resto, la soundtrack di “Mank” riproduce in maniera estremamente fedele le sonorità  caratteristiche del jazz degli albori, quello che era possibile ascoltare nelle sale da ballo americane tra gli anni ’30 e ’40.

Il duo abbandona i sintetizzatori modulari, le chitarre elettriche e gli strumenti analogici cui eravamo abituati per abbracciare la tradizione dello swing. “Once More Unto The Breach”, “Glendale Station”, “Cowboys And Indians”, la frenetica “Scenes From Election Night” e “A Fool’s Paradise” (da notare, in quest’ultima, l’evidente citazione di “The Typewriter”, lo strumentale reso celebre dallo sketch di Jerry Lewis con la macchina da scrivere) potrebbero benissimo aver fatto da sottofondo a qualche sfrenata festicciola segreta tra gangster nell’epoca del proibizionismo.

Trent Reznor e Atticus Ross, prendendo ispirazione da pezzi grossi quali Duke Ellington e Benny Goodman, ripercorrono i passi delle grandi big band del passato. In non poche parti dell’opera, infatti, il pianoforte e i fiati viaggiano seguendo i ritmi “dondolanti” del contrabbasso e della batteria. I due Nine Inch Nails però non si limitano a scimmiottare per filo e per segno i giganti della swing era. Le loro musiche, infatti, cambiano e si adattano alle scene di un biopic che riesce a divertire quando mostra gli innumerevoli vizi del protagonista (un come al solito magistrale Gary Oldman), ma anche a inquietare e a far riflettere (vedi il rapporto talvolta morboso e conflittuale tra politica e industria cinematografica).

Il tema di “All This Time” commuove e trasmette serenità  con i suoi archi ariosi, ma lo stesso non può essere detto per le composizioni più cupe e classicamente noir dell’opera. I livelli di tensione che contraddistinguono “Welcome To Victorville”, “About Something”, “Election Night-mare” o “The Organ Grinder” riescono in qualche strano modo a far tornare in mente alcune caratteristiche tipiche dello stile reznoriano, per quanto riviste in chiave rètro. Il fatto che gli autori siano riusciti a imprimere il proprio riconoscibilissimo marchio di fabbrica su una colonna sonora tanto anomala e diversa rispetto a quelle realizzate in precedenza è il motivo stesso per cui l’ascolto di questo album risulta essere straordinariamente intrigante, nonostante l’ora e mezza abbondante di durata. Una cosa è certa: fino a oggi l’involuzione ““ dall’industrial allo swing, nel caso di Reznor e Ross ““ non era mai stata così originale.