Che i Ministry non siano mai stati tipi da lasciarsi intimorire da chicchessia non è mai stato un mistero. Tra eccessi, provocazioni e scelte stilistiche a dir poco coraggiose, la band di Al Jourgensen e Paul Barker ha sempre percorso la propria strada senza guardare in faccia a nessuno. Per quanto la via – dai rinnegati esordi synthpop ai primi esperimenti di fusione tra industrial e heavy metal ““ non sia stata priva di curve e ostacoli. La metamorfosi che li portò, nel giro di una manciata di dischi, dall’aprire i concerti per i Culture Club all’essere gli artefici di un sound corrotto e depravato (alla “The Mind Is A Terrible Thing To Taste”, tanto per intenderci) non fu frutto di un’astuta mossa commerciale ma di un inflessibile desiderio di dar forma a un’idea di musica innovativa e personale.

Una coerenza di ferro che all’inizio del 1996, quasi quattro anni dopo il trionfo di “Psalm 69”, rischiò di essere la loro rovina. Nonostante gli ottimi piazzamenti ottenuti nelle classifiche statunitensi e britanniche, infatti, l’album “Filth Pig” non fu compreso nè dalla critica, nè dai fan. In parole povere: il classico flop in grado di deludere tutti. Un lavoro agli antipodi rispetto al celebre predecessore, con pochissimi inserti elettronici, sample ridotti praticamente a zero e neanche un briciolo di quell’ironia malsana alla “Jesus Built My Hotrod”. Una raccolta di dieci brani pesanti, cupi e disperati, nei quali è possibile avvertire con chiarezza le difficoltà  e le angosce di uno Jourgensen alle prese con i suoi innumerevoli demoni interiori.

L’aria, come da consuetudine quando si ha a che fare con qualcosa dei Ministry, è greve, tossica e irrespirabile dal primo all’ultimo secondo dell’opera. Le caratteristiche principali dell’industrial ““ dalla voce filtrata alle chitarre abrasive ““ sono ben presenti in “Filth Pig”, anche se di volta in volta vengono mescolate con sonorità  di tutt’altro genere. La furia dell’hardcore artificiale che segna l’avvio con “Reload” si smorza nella lenta e plumbea title track, dove troviamo un lungo assolo di armonica ad aggiungere un inaspettato tocco di perversione blues.

Il disco prosegue in maniera decisamente fragorosa, regalando riffoni ripetitivi (“Lava”, “Crumbs”) e groove ipnotici (“Useless”, “Dead Guy”) modellati attorno a influenze sludge, grunge e post-metal. Più Helmet e Alice In Chains, meno Skinny Puppy e KMFDM per cinquantaquattro minuti laceranti, opprimenti ma assolutamente non noiosi. è un album che gronda sangue, proprio come il pezzo di carne messo sulla testa dell’uomo in copertina: quasi nessuna sfumatura sintetica, poco spazio per la drum machine ma tante, tante dolorose mazzate.

Un’ombra di sollievo viene offerta dalle timidissime linee melodiche della sincopata “Game Show”, dall’originalissima ““ e fenomenale, a mio modesto parere ““ cover di “Lay Lady Lay” di Bob Dylan e dalle tinte psichedeliche di una “Brick Windows” che, essendo in tonalità  maggiore, ha un mood che per gli standard dei Ministry potrebbe essere definito sorprendentemente vivace.

Atmosfere completamente diverse per “The Fall”, clamorosamente scelta come singolo apripista. Una semi-ballad gelida, ruvida e triste (i deprimentissimi versi Everything is useless/Nothing works at all/Nothing ever matters sono da suicidio) ma oscenamente bella, con l’ugola scartavetrante di Jourgensen a fare da bilancia tra il maestoso basso ultra-distorto di Barker nelle strofe e la splendida cascata di note di piano nel ritornello. Un brano così intenso ed emozionante non può meritare il dimenticatoio. Stesso discorso vale per l’intero “Filth Pig”; rivalutiamolo positivamente, oggi che è il suo venticinquesimo compleanno.

Data di pubblicazione:  30 gennaio 1996
Tracce: 10
Lunghezza: 54:24
Etichetta: Warner Bros.
Produttori: Al Jourgensen, Paul Barker

Tracklist:
1. Reload
2. Filth Pig
3. Lava
4. Crumbs
5. Useless
6. Dead Guy
7. Game Show
8. The Fall
9. Lay Lady Lay
10. Brick Windows