Basterebbero i primi 30 secondi camera fissa su Fraser, il viso di un’adolescente inquieto, che sposta lo sguardo in continuazione sempre fuori dal quadro, in perenne ricerca di qualche cosa fuori da sè, per cogliere il cinema vivo di Guadagnino oggi, anche in questo We are who we are.
Uno sguardo modernissimo sulle pulsioni che ci governano, sulla capacità  e incapacità  di farle emergere, un focus strettissimo sui corpi liberi, dove spesso il movimento dei corpi fa la narrazione, corpi che vengono ripresi per quello che sono, non per impostazione o mossi da chissà  quale script, ma per l’estetica naturale, dove per questo si sottende appunto la libertà  di azione, la rappresentazione svincolata dal manoscritto, un incedere molto più simile alla vita che alla recitazione. Da cui, al di là  del contenitore e della struttura forzata del contesto in cui si svolgono i fatti, si resta travolti dall’esperienza visiva di questo abbandono continuo, ricercato e profondo, di questa analisi epidermica della scoperta, non solo chiaramente della propria sessualità , tema principe di Guadagnino, ma del proprio significato nel mondo.

Non è proprio questa la forzatura forse della scelta del comandante donna Sarah Wilson (splendida Chloe Sevigny nel rendere plastica la pesantezza del ruolo) a capo della base USA a Chioggia? O ancora meglio, non è proprio lo stesso camp militare il posto ideale dove la libertà  evoluta di queste effusioni, di questi amori è paradossalmente concessa? Guadagnino compie qui una straordinaria operazione di sintesi tra la logistica delle cose, non rinunciando alla sua esigenza strategicamente importante dal punto di vista produttivo di rimanere in Italia, scegliendo un ambiente, quello militare, molto trasversale negli USA, checchè se ni dica, dove si possano concentrare in quanto lecite le contraddizioni di un’America puritana e allo stesso tempo paladina dei diritti. Di fatto, la caserma di Chioggia diventa un piccolo universo specchio e humus perfetto per l’immersione nei sensi operata dall’autore di Chiamami col tuo nome.

A proposito del mood di questo precedente film, in We are who we are vi è la stessa grazia nel tratteggiare la formazione identitaria di questi adolescenti, dove l’arrivo del newyorkese Fraser (impagabile Jack Dylan Grazer) provoca la rottura degli equilibri non solo nei rapporti interni, ma mette in dubbio le singole convinzioni, in primis quelle di Caitlin (Jordan Kristine Seamón),   vera protagonista della serie, con un alternarsi fra slanci omo, ritorni etero, sia dell’uno che dell’altro fino allo svelamento finale. Rimane quindi la stessa volontà  sfidante di cogliere un’idea di fervore emotivo quello sì veramente transgender, non una cosa solo di sessi, ma quell’impalpabile complessità  di un comun sentire.

In tutto questo, ci sono i party, i bagni in mare, le corse in bici a Chioggia (quanto poco basta per rendere non dico esotici, ma attrattivi dei posti così mal considerati dal nostro immaginario collettivo), i capelli rasati e tanti, tanti primi piani. Guadagnino gira come se non ci fosse dietro la camera, le parti migliori della serie sono quelle in cui rinuncia alla narrazione, allo svolgere cronologico dei fatti (esempio massimo è la puntata quasi interamente dedicata alla festa di matrimonio) lasciando la sua assenza di regia in sincronia con la vita ripresa,   benchè costruisca quando possibile un’intelaiatura estetica, fatta di luci, vestiti, impianto scenografico degna del suo mentore Bertolucci. Per dire, libertà  dentro il cinema, non solo cinema in libertà .

Come a volte gli succede (A big splash ad esempio), forse vengono messe troppe cose dentro il calderone e questa tendenza ad arricchire il piatto di troppi ingredienti (le ripetute allusioni all’elezione di Trump ad esempio, il troppo lungo spazio lasciato al concerto finale) minano il significato ultimo dell’opera che di per sè rimane in un equilibrio delicatissimo, dove in uno stesso episodio ad esempio si assiste ad una scazzottata fra marines e chioggiotti seguita da una lunga effusione saffica, equilibrio che viene anche scosso dall’incomprensibile (questa sì) decisione di lasciare il dialetto stretto locale nella versione italiana o come se fosse comprensibile dagli adolescenti yankee.

Però, non non ci badiamo troppo, rimaniamo attaccati, che ci fa bene, ai Radiohead di House of Cards, mentre balliamo   con Frazer che non sta più nella pelle, scisso fra incontrollabili desideri o al Bowie di Absolute beginners, come assoluti principianti della vita che si buttano dentro ad un concerto, con la sincerità  e la purezza di chi va  ad immergersi nel tourbillon delle emozioni.