“Believe In Nothing” è un album che non gode di ottima fama nè tra i fan duri e puri dei Paradise Lost, nè tra i cinque membri della band stessa, che hanno sempre espresso sentimenti contrastanti nei suoi confronti. Eppure, nonostante tutte le critiche che gli sono state scaricate addosso in questi ultimi vent’anni, continua per qualche strano motivo ad attirare attenzioni. Vi basti un esempio: nel 2018, con un colpo a sorpresa, è arrivato a meritarsi una ricca edizione remixata e rimasterizzata, con tanto di copertina rinnovata in sostituzione dell’originale: una fotografia ingrandita di un gruppetto di api in un alveare che Nick Holmes, il cantante, non era mai riuscito digerire.
Una ristampa per molti aspetti abbastanza insolita: dopotutto, stiamo parlando di un disco minore che per i suoi autori rappresenta, ancora oggi, il simbolo di un periodo orrendo sia dal punto di vista personale (depressione e dipendenze), sia di quello artistico (pessimi rapporti con la label). Di solito lavori del genere vengono condannati all’oblio del fuori catalogo, quasi a volerne negare l’esistenza. Il recente “restauro” del full-length, motivato dal desiderio di riparare ai difetti della produzione di John Fryer e Greg Brimson, fa però sorgere una domanda: e se il misterioso fascino di “Believe In Nothing” fosse legato proprio al suo status di opera maledetta?
Non è un’ipotesi insensata: d’altronde, stiamo parlando dei maestri del metal “dannato”: i Paradise Lost. Una band che, seppur attraversando fasi e stili diversi, ha sempre fatto delle atmosfere dark e gotiche un caposaldo. Anche nel caso di questo album che, a causa delle pressioni della EMI, finì per essere più accessibile di quanto il quintetto avrebbe effettivamente voluto.
Nelle dodici canzoni che compongono “Believe In Nothing” non vi è traccia dell’algida pesantezza di “Draconian Times”, nè tantomeno della ferocia death-doom degli esordi. C’è solo tanta, ma davvero tanta voglia di mantenersi in piedi per cercare di salire a bordo del fortunato carrozzone alternative metal, che all’epoca correva spedito sui binari di MTV. Senza dimenticarsi di alcune caratteristiche dei due dischi precedenti, ovvero quelli tradizionalmente considerati frutto della svolta “commerciale” ““ l’approccio melodico di “One Second” e la vena elettronica di “Host” ““ i Paradise Lost cedettero al richiamo del post-grunge, confezionando una raccolta di brani dal discreto potenziale radiofonico ma non privi di toni cupi, aggressivi e, perchè no, persino deprimenti.
Spezziamo allora una lancia in favore di “Believe In Nothing”: la decisione di rimettere in primo piano le chitarre elettriche, se non altro, permise al gruppo di rispolverare quelle belle sonorità heavy che, per un po’ di tempo, se ne erano rimaste un po’ in disparte. I riffoni di Greg Mackintosh e Aaron Aedy fanno volare “I Am Nothing”, “Mouth”, “World Pretending” e “Sell It To The World”: tutte tracce solide, compatte e dai ritornelli decisamente memorabili.
Purtroppo però, come si suol dire, non è tutto oro quel che luccica, e qui di momenti opachi ce ne sono a bizzeffe. Si presentano sotto forma di una sfilza impressionante di riempitivi fiacchi, poco ispirati e pieni di quei fastidiosi loop di batteria che tanto andavano di moda a inizio 2000; figli mediocri di un rock sintetico alla Depeche Mode che punta sempre sugli stessi elementi per impressionare l’ascoltatore (senza riuscirci mai, naturalmente): i cori femminili di “Fader”, gli inserti d’orchestra di “Never Again” e “Divided” o le tastiere di una “Something Real” che sa di nu metal.
Voi vi chiederete, considerando i pochi pregi e i tanti difetti, perchè si sia sentita l’esigenza di festeggiare i vent’anni di un disco così controverso. è semplice: dagli errori, a volte, si imparano lezioni importanti. Ed è stato anche grazie alla delusione mai nascosta per questo album che i Paradise Lost sono riusciti a riprendere in mano i fili di una carriera in declino, avviando un graduale processo di riscoperta delle loro vere qualità . Una lenta ma progressiva rinascita culminata l’anno scorso con il clamoroso “Obsidian”, che ha raccolto elogi a destra e a manca. “Believe In Nothing”: uno sbaglio dagli insperati effetti positivi.
Data di pubblicazione: 26 febbraio 2001
Tracce: 12
Lunghezza: 46:00
Etichetta: EMI
Produttori: John Fryer, Greg Brimson
Tracklist:
1. I Am Nothing
2. Mouth
3. Fader
4. Look At Me Now
5. Illumination
6. Something Real
7. Divided
8. Sell It To The World
9. Never Again
10. Control
11. No Reason
12. World Pretending