Ndr: andando indietro nel tempo e nella memoria, a volte, non nè facile trovare una data esatta per la pubblicazione di un disco, sopratutto quando si parla di album italiani. Ecco che nel caso di “Sale” siamo andati a contattare lo stesso Mao e, insieme a lui, abbiamo arbitrariamente deciso che il primo marzo potesse andare bene (anche se a dire il vero, lo stesso Mao ci dice che l’uscita ufficiale era stata nel febbraio del 1996, ma, non essendoci una data precisa, la scelta del primo marzo era assolutamente sposabile).

Nel lontano 1996, all’interno della scena indipendente italiana, si stava attendendo con la giusta trepidazione la next big thing del pop. Quella fulgida promessa aveva un nome e un cognome: Mauro Gurlino, anche se negli ambienti torinesi era noto soprattutto come Mao.

Il suo talento infatti era tale che tutti erano pronti a scommetterci, lampante sin dalle sue prime esperienze giovanili (lui che comunque giovane lo era anche in quel 1996, visto che all’epoca aveva 25 anni); particolarmente significative furono quelle alla guida dei Voodoo e dei Magnifica Scarlatti.

Mao però era conosciuto anche come deejay a Radio Flash e per la sua passione per il cinema, tanto da farne argomento della sua tesi di laurea.

Terminata l’epopea del suo ultimo gruppo, col quale si era cimentato principalmente in una forma cosmica di psichedelia aggiornata agli anni novanta, il Nostro si rimise in pista cercando gli alleati giusti per dare forma vivida a un corso musicale che doveva tener conto per forza di cose delle ultime tendenze: pop sì, rock pure, un po’ di funky certamente, ma ora anche l’elettronica che non doveva rimanere sullo sfondo o come semplice orpello ma connotare l’apparato sonoro amalgamandosi al meglio con la tipica strumentazione da band.

Formato il nucleo del gruppo con il chitarrista Matteo Salvadori (con cui sin dalle prime battute andrà  a costituire un asse compositivo di prim’ordine), il bassista Gianluca “Mago” Medina, il batterista Paolo “Doctor Gep” Cucco e il tastierista Federico Bersano, alias “Begey”, la chiave di volta musicale sembrava finalmente trovata, con il sound che sgorgava libero e originale, alla stessa stregua delle canzoni che lentamente ma inesorabilmente si stavano delineando.

Mancava però qualcuno dietro le quinte che fosse abile a condensare e contenere le tante istanze e le molteplici idee di Mao e compagni, ora sintetizzati dal prescelto nome d’arte alquanto azzeccato ed evocativo: a quel punto infatti si chiamavano i Mao e la Rivoluzione.

Per quanto poi il combo fosse in pratica un’emanazione diretta del suo leader, era indubbio che sin dalle prime coinvolgenti esibizioni pubbliche ci fosse un’unione pressochè perfetta degli elementi in gioco, una compattezza notevole sul palco e, perchè no?, una presenza scenica non indifferente con tanto di piglio giusto e un look informale ma che potremmo definire fashion, col suo guardare nemmeno troppo velatamente al britpop.

L’uomo giusto in cabina di regia fu trovato in Max Casacci, da poco fuoriuscito dal gruppo madre Africa Unite, sempre per rimanere ancorati orgogliosamente alla propria città . Ma il suo nome non fu speso a casaccio (perdonate l’involontario gioco di parole) o per fatuo campanilismo, in quanto Casacci aveva una visione della musica condivisa dai ragazzi e una ricerca della modernità  attraverso un grande lavoro sui suoni, pur non tradendo una forte e brillante inclinazione pop.   Componenti che stava evidentemente ricercando e che avrà  modo di sviluppare da lì a breve tempo alla guida dei Subsonica, dove il piede sull’acceleratore verrà  ancora più spinto… ma questa è un’altra storia!

Tornando ai Mao e la Rivoluzione, i tempi insomma erano maturi per un lancio in grande stile e addirittura arrivò l’interesse e la firma con una major (la prestigiosa Virgin) già  per questo debut album; fatto da rimarcare perchè, al di là  che le grosse etichette stessero fiutando da un po’ di tempo l’aria del cambiamento nel mercato musicale, aprendo le porte agli artisti e alle band venute dal basso, è evidente che bussando alla stanza di Mao avessero come l’impressione di andare sul sicuro, tanta era la fiducia nelle capacità  del gruppo.

“Sale”, titolo di questo promettente disco d’esordio dei torinesi, non deluse certo le aspettative, e a distanza di ben venticinque anni ancora colpisce per i suoni freschi, i testi diretti ma assolutamente non banali e le melodie a presa rapida ma ben sviluppate in canoni che talvolta sapevano esulare da rime e facili ritornelli, pur rimanendo clamorosamente orecchiabili e piacevoli al primo ascolto.

I ragazzi seppero sperimentare il giusto, non sentendosi per nulla ingabbiati, ma potendo anzi perlustrare a fondo il mondo del pop, declinandolo via via come detto nel rock, nel funky, nella psichedelia, nella (moderna) canzone d’autore, il tutto addobbato da una produzione ottima a metterne in luce le peculiarità  e a farne risaltare le qualità . Gli arrangiamenti assecondano il flusso sonoro, rivestendo di volta in volta i brani e creando atmosfere sempre diverse ma indubbiamente riconducibili all’anima in fermento del suo autore principale, coadiuvato comunque dai suoi musicisti, tutti in possesso di un innegabile talento.

L’intro affidata alla celebre “Febbre” è micidiale, col suo incedere pop punk e la frenesia incanalata sui binari giusti, tutta differente dall’ondivaga e fluttuante “Temporali”, che appare a dispetto del titolo rilassata e sognante, mentre con la successiva “Pop gravitazionale” tocchiamo già  il primo apice del disco, forte com’è di un andamento irresistibile che conduce a mo’ di climax al piacevole ritornello, e di una miscela riuscita di musica e parole incalzanti.

I livelli si mantengono alti con “Al limite”, brano dall’evidente spessore autoriale e con una partitura ritmica che adeguatamente segue l’indole narrativa, volta a definire un ritratto intimista ma col quale ci si può specchiare e infine immedesimare.

“Minimo brivido” e “Ritmo” mostrano due facce della stessa medaglia, dilatata e onirica la prima (in odor di trip hop), frizzante e sincopata la seconda con Mao in veste di narratore urban, impegnato in una sorta di spoken word.

Siamo già  oltre la metà  del viaggio e la nuova tappa, intitolata “Nel sole”, mostra probabilmente la faccia più sperimentale e “fricchettona” dei Mao e la Rivoluzione, in cui convivono pacificamente al suo interno groove alla Stone Roses e giri magnifici di chitarre, oltre a un bel gioco di campionatori.

Non è da meno “My psichedelic lady”, musicalmente paradigmatica sin dal titolo, che si concede aperture chitarristiche di gran pregio immerse in un mood spaziale, all’interno del quale Mao intona un’ode amorosa, supportato da ricami sixties in sottofondo.

La penultima traccia, “Come ho perso la guerra”, è un piccolo gioiello, a detta di chi scrive un brano indimenticabile e ben apprezzato anche nella sua versione più nuda, completamente acustica, che si trovava (allo stesso modo della già  citata “Al limite”) come b-side  del singolo “Stringimi”, primo estratto del successivo “Casa”.

Nella sua veste originale contenuta in “Sale”, intessuta in un arrangiamento brioso che comprende un’elettronica gentile, Mao snocciola un testo indimenticabile che suona come un invito a non abbattersi nei momenti di difficoltà , quando occorre riconoscere una propria sconfitta.

E’ l’ultimo vero manifesto di un disco d’esordio davvero da rimarcare per le tante felici intuizioni, dal momento che il suggello finale è appannaggio di una pur riuscita cover, efficace per mostrare da una parte una inaspettata fonte ispiratrice, dall’altra la capacità  innata di introiettare il proprio stile in brani altrui al punto da farli apparire come credibili all’interno di un progetto autoctono.

“What a wonderful world” viene in pratica stravolta, sia nel cantato (d’altronde il riconoscibile timbro di Mao nulla ha a che spartire con il potente graffiato del maestro Louis Armstrong), che nella musica, resa contemporanea e ficcante. Un esercizio di stile se vogliamo, che denota una volta di più il grande talento di cui l’ensemble disponeva e che giustificava il buon investimento fatto dalla casa discografica.

A distanza di dodici mesi, i Nostri torneranno in pista in una forma diversa, più canonicamente pop rock, e oltretutto in quartetto (vista la defezione di Begey che tanto contraddistinse a livello musicale con i suoi colori elettronici questo primo lavoro) per un altro album dal grande impatto ma baciato da meno hype.

Furono due dischi in due anni quindi per questa eclettica band (che dal seguito di “Sale” si sarebbe chiamata solo “Mao” senza “la Rivoluzione”), una scelta forse per battere il ferro finchè era caldo, anche se probabilmente un album di pop non convenzionale come “Sale” avrebbe avuto bisogno di più tempo per essere maggiormente assorbito e assimilato, così da arrivare al grande pubblico.

Dopo quel fragoroso binomio, non corroborato dai riscontri sperati, ci fu una sorta di empasse e trascorsero altri quattro anni prima di un nuovo album, che però si rivelò a tutti gli effetti un disco solista di Gurlino.

Le potenzialità  per un simile exploit a mio avviso però c’erano tutte e quel successo, che sorrise a tanti artisti e gruppi di area indie negli anni novanta, se lo sarebbero meritato pienamente anche loro, che ho avuto modo di seguire da vicino in quegli anni.

Ho evitato tuttavia di connotare l’articolo a livello personale, infarcendolo dei tanti piacevoli ricordi legati al gruppo e a quello straordinario periodo, che porterò per sempre nel cuore.

Inutile avere dei rimpianti, la buona musica per fortuna rimane.

E voi provate a rimettere nel lettore cd questo disco che proprio oggi spegne 25 candeline e troverete che è invecchiato benissimo, non perdendo un briciolo del suo fascino”… così ancora smaccatamente e meravigliosamente giovane e innovativo.

Data di pubblicazione: 1 marzo 1996
Tracce: 10
Lunghezza:  52:24
Etichetta: Virgin Music
Produttore: Max Casacci

Tracklist
1. Febbre
2. Temporali
3. Pop gravitazionale
4. Al limite
5. Minimo brivido
6. Il ritmo
7. Nel sole
8. My psichedelic lady
9. Come ho perso la guerra
10. What a wonderful world