Per non lasciarci travolgere dalla tristezza in questi tempi maledetti abbiamo bisogno di musica folle, assurda e soprattutto divertente. E allora ecco che arriva a darci un prezioso aiuto Paul Leary, il chitarrista dei leggendari Butthole Surfers – ovvero i maestri della pazzia applicata all’alternative rock. “Born Stupid”, il suo secondo album solista, viene pubblicato a distanza di trent’anni dall’esordio intitolato “The History of Dogs”. Dal 1991 a oggi il mondo è cambiato; persino peggiorato, secondo molti aspetti.

Viviamo un’epoca ambigua che scorre via tra incredibili prodigi scientifici e inspiegabili cretinerie scambiate per questioni di rilievo. Scemenze che sono frutto di un processo di involuzione che purtroppo ormai riguarda un po’ tutti noi, anestetizzati come siamo di fronte a qualsiasi orrore mediatico. Che siano innocue sciocchezze o pericolose bestialità , il risultato è sempre lo stesso: di giorno in giorno, le nostre menti si intorpidiscono.

Con un cervello in pappa è difficile riuscire a fare qualcosa di buono. Se ti chiami Paul Leary, però, puoi considerarti fortunato: per te l’idiozia è puro oro. Le dieci tracce di “Born Stupid” suonano tanto imbecilli quanto geniali. Di primo acchito l’approccio del chitarrista texano alle sonorità  classiche del country, del blues e del rock potrebbe sembrare naà¯f, quando non addirittura parodistico. La realtà  è però ben diversa: Leary si diverte un mondo a farci credere di essere un fesso mentre, sotto sotto, sperimenta e trova soluzioni originali, con l’obiettivo di rendere più interessante una raccolta di canzoni demenziali nella sostanza ma non nella forma, poichè aggraziate da ricchissimi arrangiamenti.

L’anima, però, resta lo-fi: alla fine, nonostante i numerosi “abbellimenti” (cori, organi, carillon stonati e pompose orchestre digitalizzate) domina un costante senso di gioiosa e caotica imperfezione. L’amore per la psichedelia più alterata e malata fa da traino a un breve viaggio (ventotto minuti appena) che parte con lo spaghetti western robotico della title track e prosegue, di sorpresa in sorpresa, con filastrocche da carnevale lisergico (“Do You Like To Eat A Cow”, “Sugar Is The Gateway Drug”), incubi metallici alla Butthole Surfers (“What Are You Gonna Do”), feste tra cowboy indemoniati (“Mohawk Town”), singalong su valzer sgangherati (“Throw Away Freely”), sconclusionati mix strumentali tra musica da ascensore e industrial (“Gold Cap”) e, dulcis in fundo, una ballataccia piratesca che trasuda alcol di pessima qualità  da tutti i pori (“The Adventures Of Pee Pee The Sailor”).

In mezzo a questo delirio trovano spazio due allucinanti cover dei Butthole Surfers, entrambe pesantemente modificate: “Gary Floyd”, che abbandona il grezzissimo punk delle origini per trasformarsi in una ballad acustica con tanto di delicati sussurri e assolo di violino, e “The Shah Sleeps In Lee Harvey’s Grave” (titolo abbreviato in “The Shah Revisited”) che viene spogliata della sua furia proto-grindcore per trasformarsi in un ridicolo numero da circo di serie Z, con una linea melodica ricalcata sul modello della già  citata “Do You Like To Eat A Cow”.

Quando non prova ad ammaliarci con il suo timbro da crooner ubriaco, Paul Leary si diletta nel camuffare la propria voce utilizzando una miriade di effetti deformanti ed esilaranti, quasi volesse farci credere di essere un personaggio dei cartoni animati. è solo uno dei tanti stratagemmi che il nostro utilizza per rendere ancora più stravagante e gustosa l’esperienza di ascolto di un piccolo disco capace di mostrarci la bellezza che si nasconde dietro ciò che è brutto, stupido e cattivo. Grazie per le risate!