Ascoltare questa opera del duo Aiazzi-Maroccolo, artisti cui spetta di diritto un posto nella storia della musica e della cultura del nostro Paese, significa perdersi in un oscuro, cupo ma tremendamente affascinante, viaggio spazio-temporale che dai giorni nostri ti riconduce a un’epoca assai florida per le sorti del rock italiano e dei due protagonisti nello specifico.

Già , perchè il “Marchese” Antonio Aiazzi, tastierista, e il mitico Marok, uno dei bassisti più influenti della scena tricolore ma anche instancabile, prolifico autore di molteplici iniziative da solista, contribuirono enormemente a suo tempo a fare le fortune dei Litfiba, quando ancora i nostri si muovevano nell’ambito di una new wave come mai si era sentita in Italia.

All’epoca il gruppo viveva una specie di stato di grazia prolungato, che gli permetteva di cimentarsi con successo in progetti anche molto differenti per istanze e matrici, assecondando di volta in volta le esigenze artistiche che facevano capolino nei loro cuori, le stesse che poi divenivano urgenze creative.

Il lato sperimentale, notturno, in odor di dark con preminenti suggestioni gotiche era stato perlustrato magnificamente in un evento passato alla storia del movimento wave degli anni ottanta, e fiorentino nella fattispecie: fu quando nel carnevale del lontano 1982 il poliedrico Bruno Casini – che intreccerà  presto la sua vicenda umana e artistica con quella dei Litfiba diventandone manager – li coinvolse per lavorare assieme alla Mephistofesta, performance tramandata ai posteri in cui si miscelavano egregiamente la forma canzone con quella teatrale, in un tripudio di umori e azioni tra il macabro, il metafisico e il carnale.

Era l’apice di una certa fascinazione per il lato oscuro e trascendentale, in cui l’espressionismo assumeva una valenza importante. Tra i brani interpretati in quell’occasione ci fu anche “E. F. S. 44 Ethnological Forgery Series”, poi pubblicata nel primo EP del gruppo, testimonianza rara e memoria storica di un appuntamento che non si sarebbe più ripetuto a quel livello e in quella forma.

Fu catturato in pratica in maniera, forse inconsapevolmente, perfetta lo zeitgeist di quel movimento.

A distanza di quasi quarant’anni, come a suggellare un’amicizia radicata e a questo punto verrebbe da dire indissolubile, Aiazzi e Maroccolo hanno voluto tracciare un continuum, seppure in maniera non calligrafica, con quella serata, fissando su disco un lavoro che ne possa perpetrare l’identico spirito e, soprattutto, ricrearne l’atmosfera.

In “Mephisto Ballad” c’è ancora lo zampino di Casini che voleva sonorizzare un evento legato ai magici anni ottanta fiorentini, chiamando a raccolta i suoi migliori interpreti. Saltato quell’appuntamento causa i noti problemi legati alla pandemia che tuttora ci sta attanagliando tutti, ecco che i due compagni di mille battaglie non si sono persi d’animo e, ritrovando un’alchimia naturale (che sembra proprio non essersi in realtà  smarrita, nonostante l’inesorabile e ingente scorrere del tempo) hanno ripreso l’idea che stava alla base di quel vecchio brano.

Trovato l’input giusto, questo si è poi sviluppato nella lunga e sinuosa opening track intitolata “EFS quarantaquattro”, un vero e proprio vorticoso viaggio negli inferi, per di più accompagnato dagli spettrali versi interpretati da Giancarlo Cauteruccio (altro protagonista di quegli anni roventi, basti pensare che era figura di punta dei Krypton, fautori e magnifici alfieri del teatro sperimentale fiorentino, con cui già  i Litfiba collaborarono: non mi dilungo, ogni fan sa quanto importante sia stato un album come “Eneide”).

Dopo i sedici minuti della prima traccia, necessari a delineare il mood dell’intero lavoro (Gianni Maroccolo l’ha definito “tardodiscodark”), ci si inoltra in altri territori che via via prendono contorni e spigolature diverse, in cui i due musicisti si destreggiano a mettere in scena uno spettacolo decadente e al più minaccioso, anche se non mancano momenti lisergici dove assistere a squarci tanto inattesi quanto favorevolmente accolti.

Se nella traccia successiva “Streben” i meandri sonori sono ancora ispidi e “pericolosi”, in “Das Ende” è facile chiudere gli occhi e farsi cullare da una strumentazione multicolore che riesce a tradurre il passaggio indolore delle anime più disperse e sole.

E che dire dell’onirica “Die Ballade von Mephisto”? Anche questo episodio è baciato da una singolare grazia, in cui sembrano convivere le due polarità  della condizione umana.

“Die Laster” di contro ci spinge nuovamente negli abissi, nel buco nero della narrazione, con echi e suoni che paiono provenire dall’oltretomba, mentre in “Mephisto Ballad”, altro episodio cruciale nonchè quello che intitola l’opera, le atmosfere si dilatano creando una convergenza ariosa e rappacificata tra le forze del Bene e del Male: a corredare il singolo vi è anche un magnifico videoclip (in cui vengono tirati in ballo Faust e Mefistofele) diretto in modo sublime da Flavio Ferri, che all’interno dell’album arricchisce invece l’afflato sonoro con un utilizzo certosino e necessario delle chitarre e dei sintetizzatori.

Protagonisti indiscussi sono in ogni caso i due titolari del progetto che, mossi da genuina passione e sorretti da un inaudito talento compositivo, sono riusciti a consegnarci un lavoro che non solo omaggia in modo sincero e avvincente un evento che ha segnato i ricordi di chi c’era, ma che, attualizzato, veicola ancora oggi un messaggio intimo e allo stesso tempo dirompente.

Credit foto: Cesare Dagliana