Dei fiorentini si nominerà  sempre la presenza di Iacopo Meille, singer degli storici Tygers Of Pan-Tang, fiore all’occhiello di un gruppo di ragazzi con invero tanti anni di palchi sulle spalle, che giungono al secondo capitolo del progetto Damn Freaks.

Mai luogo comune stavolta pare più azzeccato nel farsi suggerire dalla cover dell’album ciò che saranno le trame sonore e le atmosfere evocate dai brani. Si gioca con l’immaginario tipico del rock stradaiolo, fracassone ed indolente ,ma allo stesso tempo molto glamour e patinato, della Los Angeles di metà  e fine anni ’80, tra donne dall’appetibile presenza, voglia di evasione e passione per la velocità .

All’ascolto della musica ivi contenuta , pare proprio di sgommare a tutta velocità  con accanto qualche bella donzella, non prima però di aver inserito il cd dei Damn Freaks nel vano dell’autoradio, ovviamente a tutto volume.

Sfrecciando comodamente riversi nella pelle dei sedili, tra ritornelli catchy, ariose chitarre e r’n’r da FM, l’immaginario richiamato è quello dei campioni del glam/street rock come Motley Crue o White Lion (e perchè no, ricordiamo i conterranei Shabby Trick) o del class metal di Dokken e Ratt.

Un genere musicale che fino all’alba degli anni ’90 pareva non avere concorrenti nella presenza nelle classifiche di vendita e nei passaggi radio e video, ma che poi fu sommerso più dalla sua sovraesposizione e dalla stanca ultima produzione dei suoi protagonisti, che da quello che ci hanno sempre raccontato a proposito della storia del rock, concepita a meri cicli (ovvero in questo caso il grunge che sommerge tutto ciò che era ritenuto ai tempi cool, glam e troppo scanzonato).

Dopo il crollo del genere street, glam e hair metal, invece rimasero gruppi che cercarono di mantenerne viva tale tradizione, ma furono e sono giocoforza quelli che nutrivano e nutrono una sincera passione per questa modalità  di vivere e sentire il rock “‘n’ roll, al di là  dei riscontri meramente commerciali.

Con piacere quindi si percepisce l’autenticità  dei Damn Freaks nel proporre una serie di brani costruiti con il giusto mordente e con la carica adatta a far sì che i brani scorrano in maniera fluida, per regalare la classica ma corroborante ora di puro e sano divertimento.

Un album da considerare nel suo insieme riuscito (non mi è tra l’altro dispiaciuta l’assenza delle classiche mielose power ballads) ma a cui forse mancano dei veri e propri pezzi “killer”, prerogativa dei migliori classici di questo genere. Se dovessi scegliere comunque un paio di potenziali hit singles segnalerei la finale “Stranger to your touch” e “Game Over”, che è impreziosita tra l’altro da un divertentissimo intro che mi ha ricordato i Twisted Sister.