Il terzo disco di Ben Howard (“Noonday Dream” uscito nel 2018 qui la recensione) ha fatto conoscere anche in Italia il talento di un cantautore curioso, che non si è mai accontentato di essere blues, folk o pop. “Collections From The Whiteout” è figlio delle sperimentazioni inaugurate in quel periodo e di una nuova, ritrovata ambizione. Co ““ prodotto da Howard e Aaron Dessner dei The National raccoglie in una sessantina di minuti abbondanti un impressionante numero di collaboratori.

Il giovane produttore e batterista jazz Yussef Dayes, Kate Stables (This Is The Kit) James Krivchenia dei Big Thief, Thomas Bartlett (St. Vincent) Rob Moose (Bon Iver, Laura Marling, Phoebe Bridgers) Kyle Keegan (Hiss Golden Messenger) si alternano al fianco dei musicisti che accompagnano da tempo Ben in tour.

“Follies Fixture” non può che ricordare “22, A Million” dei Bon Iver e non è un caso: l’idea è venuta ad Howard mentre era in Portogallo e stava ascoltando “Santa Agnes”, traccia ideata da Justin Vernon, Aaron e Bryce Dessner per il progetto parallelo People Collective.

La voglia di mettersi alla prova con arrangiamenti avventurosi e collage sonori è nata in quei momenti come l’istinto di utilizzare migliaia di pedali per l’amata chitarra. Il risultato è un’abile, interessante fusione tra anime opposte: una più tradizionale ben rappresentata da brani come “What A Day”, “Far Out”, “Sorry Kid” o la melodica “You Have Your Way” e l’altro lato dell’Howard -pensiero, l’elettronica di “Sage That She Was Burning”, “Finders Keepers” e “Metaphysical Cantations”.

Testi spesso tratti dalle news del giorno o dedicati a personaggi storici (la morte dell’imprenditore e navigatore inglese Donald Crowhurst, il processo per truffa alla finta ereditiera Anna Sorokin, il pilota ladro Richard Russell) e molta voglia di guardare avanti, ai concerti già  prenotati per l’autunno prossimo. Questo è il Ben Howard del 2021.

“Collections From The Whiteout” funziona se ascoltato a piccole dosi, meno se si sente tutto d’un fiato nonostante il buon feeling di “Rookery” o “Unfurling”. Va comunque apprezzato il coraggio di un musicista che avrebbe potuto tranquillamente restare il wonder boy di “Every Kingdom” e “I Forget Where We Were” invece ha scelto altre strade ben più pericolose, anche a costo di sacrificare un po’ della compattezza, della magia e dell’intensità  che caratterizzavano la sua produzione passata.