Ci troviamo di fronte all’ultima fatica partorita dalla mente sempre curiosa, sempre sul pezzo della cantautrice e scrittrice norvegese Jenny Hval.
Chi la segue, è abituato a notare (e apprezzare) i frequenti cambi di nome, scelti a seconda del progetto e delle intenzioni comunicative.
è partita dai Rockettothesky, nel 2006, con uno stile a metà tra il folk e la sperimentazione, per poi regalare al pubblico due dischi molto intimi, incisi senza servirsi di alcuno pseudonimo, tra cui il più recente “The Practice of Love” del 2019. Nel frattempo, sempre affiancata dal fido polistrumentista Hà¥vard Volden, la Hval pubblica “Nude On Sand” nel 2012 e un EP dal titolo “Feelings”, creando un nuovo progetto dal nome Lost Girls.
Arriviamo dunque a “Menneskekollektivet”, ovvero la parola norvegese che sta per “collettivo umano”.
Il disco è un lavoro prettamente sperimentale, che la porta ad elaborare nuovi approcci comunicativi e, di conseguenza, a prendere le distanze dalla synthwave incappata negli ultimi anni nel corso dei precedenti lavori.
Le cinque tracce, che non scendono mai sotto i 4 minuti e raggiungono picchi di 15 minuti, sono sostanzialmente costituite da dei loop allungati e tesi allo spasimo, su cui la cantautrice e compositrice parla, vocalizza, si diverte. Riesce a farlo in maniera impeccabile, a tratti inquietante al punto giusto, lasciandosi trasportare dalle note e dalle percussioni ripetute all’infinito che fanno apparire il tutto come una sorta di film mentale che riesce a proiettarsi all’esterno.
è evidente che la forma canzone sia stata abbandonata, in favore di tracce che risuonano come eco lontane rimbombanti all’infinito.
Ciò che viene fuori è un connubio di suoni, per la maggior parte elettronici e sottoposti alla Hval da Volden. Lei ascolta e, come rapita in una sorta di sogno paranormale alla volta della sperimentazione sonora, lascia che la sua voce e la sua creativià vengano sprigionate senza lasciarsi costringere in alcuna struttura o forma espressiva prestabilita. Anche le parole sembrano essere sostanzialmente nonsense: l’importante è che riescano a creare un blend omogeneo con i suoni.
Insomma quel collettivo umano, solo immaginabile nelle nostre menti (e in quelle di Jenny Hval e Hà¥vard Volden), dal momento che gli assembramenti sono tassativamente vietati da un anno e passa a questa parte nel mondo reale, riesce a fondersi in un corpo unico di musica e parole, a trasportarci in una dimensione senza tempo fatta di rimandi sconnessi e improvvisazione labirintica.
In altre parole tutto ciò che accade nelle nostre menti stanche o iperstimolate a seconda del contesto, in quel turbinio di pensieri che un po’ ci spaventa, un po’ ci affascina.