è di nuovo venerdì e seguendo la traiettoria del volo di un moscone – dal ronzio più emozionante di tante cose sentite ultimamente – ho percepito l’esigenza, da parte dell’Universo, di sapere (anche) la mia sulle ultime pubblicazioni musicali del Belpaese; è per questo che, signore e signori, ho deciso di comunicare urbi et orbi il mio bollettino del giorno sulle nuove uscite del pop italiano. Sì, quel tragico, ribollente pentolone traboccante degli sguardi impietosi di chi dice che la musica nostrana fa schifo, di chi “parti Afterhours, finisci XFactor“, di “Iosonouncane meno male che esisti“, di “Niccolò Contessa ma quando ritorni“, di Vans, libri citati mai letti e film repostati mai visti che ogni venerdì rinfoltisce la sua schiera di capipopolo di cuori infranti con una nuova kermesse di offerte per tutti i gusti e i disgusti. Ecco, di questo calderone faccio parte come il sedano del soffritto, quindi non prendete come un j’accuse quello che avete letto finora: è solo un mea culpa consapevole ed autoironico – ridiamoci su! che una risata ci seppellirà , per fortuna, prima o poi – a preparare lo sfortunato lettore alla breve somma di vaneggi e presuntosi giudizi che darò qui di seguito, quando vi parlerò delle mie tre uscite preferite del weekend, e della mia delusione di questo venerdì. Sperando di non infastidire nessuno, o forse sì.

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COMA_COSE
Nostralgia (album)

Solitamente, non amo inserire dischi nel mio bollettino per un fatto di onestà  intellettuale; il venerdì dovrebbe essere fatto di quattro weekend per riuscire ad ascoltare tutto quello che di interessante viene pubblicato (metà  del tempo, però, dovrebbe essere impiegato per reperire ciò che resiste al crollo dell’ispirazione, nella vastità  del nulla che affolla Spotify), per digerirne aspetti più e meno convincenti e restituire al pazzo lettore che sta leggendo una summa più o meno coerente di opinabilissimi opinioni che, però, riflettano almeno in parte il mio pensiero critico. Ecco perchè, oggi, inserire tra le segnalazioni del weekend anche “Nostralgia“, il nuovo disco di Coma Cose, rappresenta uno strappo alla regola in piena regola: era necessario, per un fan della prima ora come me, dire qualcosa sulla base dell’ascolto nottambulo e immediato – e quindi forse ancor più genuino – delle sette tracce del disco, con l’avvertenza necessaria di un capello introduttivo utile ad incoraggiare la curiosità  di chi legge più che a soddisfare la profondità  d’analisi che cerco, con grande boria, di reclamare da me stesso per le mie dissertazioni del weekend. Insomma, mollate questo bollettino, aprite Spotify e fatevi – come sto provando a fare io – un’idea sui venti minuti abbondanti di un lavoro denso, e se vogliamo diverso da tutto quello che il duo sembra aver fin qui proposto confermando allo stesso tempo le predisposizioni liriche espresse dal progetto di Franco e California sin dalle prime pubblicazioni; “Nostralgia” non ha quel piglio lisergico e un po’ freak di “Hype Aura“, ma gode di un’attitude autorale quasi punk per le immagini che evoca, ricordando gli esordi – seppur filtrati da un linguaggio più pop – di “Golgota”, “Cannibalismo” e “Inverno ticinese”. “Fiamme negli occhi” – che conosciamo ormai tutti, e che piacere poterlo dire riguardo ad un brano che, fino ad un paio di mesi fa, portava firme sconosciute al Grande Pubblico (che come sempre interpreta benissimo il ruolo di nottola di Minerva) – si sposa bene con “Novantasei” in un matrimonio leggero – anzi, leggerissimo – che trova la sua controparte nella declamazione poetica di “Mille tempeste” e nella soda caustica della battiastiana e animalattiniana “Discoteche abbandonate” (mio pezzo preferito, forse anche perchè mi richiama a “1950”, capolavoro di Amedeo Minghi fin troppo dimenticato, oggi, e tutto da riscoprire) per poi mettersi a nudo nella confessione sottovoce di “Zombie al discount”, picco intimo di un disco che spoglia e riveste i Coma Cose  di un nuovo, definitivo, riconoscimento sociale quanto artistico: quello di un’autoralità  rinnovata e in costante trasformazione, sempre più matura e meno adolescenziale. Sono gli stessi Coma Cose di “Post-Concerto”, ma ce lo cantano in modo diverso attraverso una patina nostalgica che si fa di tutti diventando, appunto, nostra.


SVEGLIAGINEVRA
Due

Inutile dire che ormai la mia vita di ascoltatore ruoti intorno a poche e piccole cose (qualità , queste, che da sempre contraddistinguono ciò che è importante davvero) capaci di restituire al mio corpo stanco la forza per affrontare, ad ogni venerdì, il riflusso musicale di questa indomabile marea di singoli che ogni fine settimana – con sempre più crescente e disperato afflusso di nuovi affluenti – ingrossa il grande fiume di Spotify. Ecco, una di queste “piccole e poche cose” è di certo la produzione di Svegliaginevra, che piccola non è più – anzi, sta diventando sempre più grande e consapevole, senza perdere la fanciullesca curiosità  della bambina – e di singoli, ad oggi, ne ha pubblicati ben sei (uno più bello dell’altro – che ve devo dì: quando c’è da dirlo, si deve dire); la cantautrice campana è un nome che sembra essere già  diventato imprescindibile in tutte le “guide all’ascolto” nazionali, tappa fondamentale di bollettini vari che ad ogni nuova uscita si affannano per dare motivazioni utili al fatto straordinario che si sta concretizzando sotto gli occhi di tutti: per una volta, la qualità  sembra aver ingolosito i grandi Signori della Guerra e delle Playlist che, incapaci di resistere al fascino dell’urgenza poetica, stanno inconsapevolmente incoraggiando l’emersione di chi, ad oggi, potrebbe avere gli strumenti utili ad impugnare il megafono del mercato per dire cose che siano sensate, vere e sincere, senza adagiarsi sugli allori di un esordio da favola, invertendo la rotta della nostra ormai lassa e sfibrata sfiducia nei confronti del nuovo. Non è cosa facile, accentrare su di sè i riflettori e, nonostante ciò, continuare a brillare da sè, al punto da pensare che sia più il mercato ad avere bisogno di Ginevra che il contrario: “Due” è la conferma, l’ennesima, di un talento cristallino che non riesce a sentirsi definito da altro che non sia la propulsiva necessità  di rinnovamento di una mente creativa sincera, e quasi angelica nel suo approccio naturale alla scrittura e alla nudità . Ginevra ti spoglia con la voce, senza la sfacciataggine aggressiva di un erotismo fasullo e senza ammiccare a paraculismi pret-à -porter: è l’intimità  che prende forza attraverso le trame delicate di una penna senza filtri, in una scrittura vocale capace di commisurare – equiparandole – la potenza sonora delle parole alla poesia genuina del loro contenuto. E’ un gioco difficile di equilibri, quello che mette in campo Svegliaginevra ad ogni nuova release, degno dell’alchimista navigato e del più spregiudicato dei funamboli; per naturalezza creativa e assenza visibile di ricette e di formule, Ginevra sembra però essere ben più vicina ad un Philippe Petit che ad un Alexander Fleming. E io, continuo per questo ad avere una fiducia cieca nel futuro grazie ad alternative come “Due”, che anche quando tra un paio di mesi sarà  diventata mainstream non smetterà  di farmi gongolare. Lo so, perchè così è stato con tutto quello che, fin qui, è uscito dalla giungla bellissima della testa e del cuore di Svegliaginevra.


MINISTRI
Peggio di niente

Ministri, per una nuova canzone politica che non soffra il peso di una retorica sempre più vuota, fatta di frasi fittizie che poco hanno a che fare con l’isterismo di questa contemporaneità  post-moderna, post-covid e post-qualsiasicosa, per noi generazioni perse alla rincorsa di una storia che ci precede senza darci mai la possibilità  di viverla in tempo. Allora potremmo parlare, per “Peggio di niente”, di canzone post-politica o forse addirittura di post-canzone, nel senso che il ritorno dei Ministri spariglia le carte con la stessa vecchia e gloriosissima foga, superando il concetto stesso di “canzone impegnata” (che fa tanto, troppo anni Settanta) e dando una veste melodica e musicale ad un’invettiva disincantata e disillusa, che si concede il lusso (e l’onere, allo stesso tempo) di fregiarsi con un citazione diretta nientepopodimenoche a Fabrizio De Andrè. Sarà  questo che mi ha fatto gongolare per tutti i tre minuti del brano? O la sensazione che, finalmente, qualcuno fosse tornato dagli inferi per indicare la via verso ciò che “inferno non è”, memori del calore insopportabile di questo rogo pandemico? Non c’è solo la contemporaneità , in “Peggio di niente”; c’è la consapevolezza che l’oggi altro non sia che la cartina tornasole di un disagio che appartiene ad un irrisolto passato, e che sta proiettando le sue lunghe dita nere su un futuro reso sempre più incerto dalla nostra allergia alla militanza, alla problematizzazione. I Ministri salgono in cattedra strepitando con voce da masanielli, urlando in faccia al sopito pubblico che c’è da svegliarsi, e subito. Che tutto quello che ci resta, per davvero, pare essere ben “peggio di niente”.

FLOP

Niente, oggi non ho fatto in tempo ad arrabbiarmi. Troppa roba, come sempre, ma poche cose capace di smuovere la mia irrisolta frustrazione. Ci vuole forza e ingegno per riuscire ad indignare, oggi. Prossimo weekend, spero. Sto cominciando ad avere strani sfoghi cutanei dovuti ad assenza di occasioni utili a catartizzare l’odio represso.

SEZIONE VIVAIO

Di fronte al nuovo che avanza ritrarci non è più possibile, se non assumendocene le pesanti responsabilità  generazionali; ecco perchè abbiamo bisogno oggi di dedicarci ai polmoni di domani, che hanno bisogno di ossigeno e di speranza. Nasce per questo la “Sezione Vivaio”, con le nostre segnalazioni dei più interessanti emergenti di giornata: solo i migliori fiori che la gioventù, come direbbe Fossati, fa ancora crescere per le strade.

SIBODE DJ, Suko

Da dove esce, questo folle Sibode Dj? Ma che estratto di pazzia lucidissima e delirante che è, il suo “Suko” per Brutture Moderne (che combinazione meravigliosa di nomi bellissimi)? Nell’era della paralisi motoria e intellettiva, Simone Marzocchi (lato buono di SDj) riattiva il respiratore artificiale e regala alle nostre membra stanche un’iniezione di ossigeno e buon umore; sì, ma non lasciatevi deviare dal fulgido non-sense Skiantos-style di Sibode: in “Suko”, c’è un aroma di presaperilculistica ironia che taglia come lama sia chi prende troppo sul serio SDj che chi non lo fa. Insomma, “Suko” è un brano che – in una direzione o nell’altra – lascia il segno e che – in un modo o nell’altro – vi prende per il culo: sta a voi scegliere (e noi ve lo consigliamo vivamente) se essere presi bellamente in giro dal Frankenstein ammiccante di Simone Marzocchi.

RIVIERE, Come il lago

Riviere è al secondo appuntamento con la scena e anche a questo giro decide di presentarsi con l’abito delle migliori occasioni, per non sfigurare nè lasciar dubitare chi, già  da “Quando parlano di te”, ha visto nella penna ligure (d’adozione) un nuovo, consapevole epigono della scuola d’autore più vera e poetica. La tradizione traspira anche da “Come il lago”, svolgendo per tutto il brano un filo del discorso rizomatico, che vive i suoi alti e i suoi bassi nella nenia narcotizzante di una climax riuscita: sul finale, la produzione della canzone s’invola in una cavalcata aggrovigliata, tutta imperniata intorno ad un grappolo di parole che diventano martellanti, inchiodandoti all’ascolto fino alla fine. Meno carezze e più schiaffi rispetto al primo singolo, in “Come un lago”: confidiamo che bastino a tenerci svegli fino alla pubblicazione di un ormai atteso disco d’esordio.

FRANCESCO SAVINI, Bombe nucleari

Non male il nuovo singolo di Francesco Savini per Le Siepi Dischi; non è facile inquadrarlo in qualcosa che già  esiste e questo, ovviamente, non può che essere un bene. “Bombe nucleari” è un brano che esplode, e in mille direzioni diverse: echi di Coma Cose, rigurgiti (indolori) di Motta e una patina pop vecchia scuola (saranno quelle chitarre elettriche al fulmicotone, che mi sanno tanto di Novanta) a mettere in chiaro la volontà  di Savini di non rimanere incastrato in una scena che – ora come ora – sembra non appartenere più davvero a nessuno, proprio perchè ostinatamente “di tutti”. Il testo nasconde bene le sue pieghe “paracule” (nel senso buono del termine) mostrando i muscoli di una produzione energica, ricca di chicche ritmiche e melodiche che aiutano, una volta tanto, a non distrarsi dopo soli quindici secondi dall’ascolto del brano.

REVIF, Sentirsi (album)

Arriva al suo nuovo punto di arrivo (e di ripartenza) discografico anche Revif, cantautore romano con la testa persa tra le nuvole del brit-pop, dove sembra effettivamente viversela piuttosto bene: “Sentirsi” assicura un quarto d’ora di vibrazioni sospese tra Phoenix e Mac Demarco filtrate dalle valvole italianissime del Giorgio Poi di “Smog” e del De Leo di “Muse”, ma anche il miglior Colombre di “Pulviscoli” (l’equipe di produzione non scherza!). Non che la tradizione italiana, comunque, venga meno attraverso le cinque tracce dell’EP: Battisti pare essere lume tutelare di un talento che aspetta solo di trovare la purezza di una forma che lo esprima al cento per cento, senza permetterci di avvicinarlo a nomi che, per quanto altisonanti, rischierebbero di limitare l’originalità  del progetto.

CORTESE, Hiroshima

Cortese, un cognome che si fa attitudine da gentleman nel proporre con “Hiroshima” un’alternativa al brano sguaiatamente da playlist, resistendo comunque all’urto del primo ascolto. Certo, arrivati ai trenta secondi del pezzo i riferimenti richiamati sembrano essersi già  moltiplicati a mezza scuola d’autore (e il che, certo, non pare un male ad un nostalgico come me) e il ritornello possiede la spinta propulsiva di un tormentone radiofonico che trent’anni fa avrebbe spaccato le radio di tutta Italia. Oggi, “Hiroshima” resta invece un brano ben scritto, dall’estetica un po’ retrò ma convincente, che ha il profumo di “cose fatta alla vecchia” che non smettono di essere “evergreen”. E comunque, il nostro Cortese scrive bene. E questo, a mio parere, è già  un punto in più rispetto ad altri.

EDODACAPO, Tutti i musei che non abbiamo visto

Edodacapo racconta tutte le cose che sono passata dalla sua camera, lasciandole sfilare davanti alla memoria solo per raccoglierne l’eco del ricordo e farne un monumento – bello, va detto – alla nostalgia: “Tutti i musei che non abbiamo visto” fa stare bene tirando pugni nello stomaco, favorendo la digestione di amori rimasti incastrati in gola, grazie – anche – ad una produzione intelligente (curata da Paroletti alias Golden Years) quanto efficace nel rilanciare l’emotività  di un testo comunque ben scritto. Una sinergia magnetica di fattori che rende il secondo singolo del cantautore pugliese prodotto in linea con quello che il mercato vuole ostinarsi ad offrire, senza per questo trasformare Edodacapo nell’ennesimo epigono dell’ormai defunta scena It-pop.

PARRELLE, dalle22alle5

Non male Parrelle, che pur non rientrando a misura nel ristretto circuito di canzoni e autori che amo ascoltare (eh oh, sono un radical chic del ca”…) convince con un brano che ruota intorno a quattro accordi (giusti) e ad un testo che gode di ottimi incastri rimici che si fanno ritmici, dettando il groove di “dalle22alle5” (ecco, sul titolo un po’ cringio, come direbbe il nipote che non ho ancora, sempre perchè sono un radical chic del ca”…) più della sezione percussiva minimale scelta in fase di produzione. Un pezzo d’amore ai tempi del coprifuoco, che sicuramente gode di “immediata attualità “. Su come resisterà  all’urto del tempo, ce lo dirà  la Storia. Oggi, comunque, Parrelle fa il suo e non sbaglia.

SUPERNINO, Supercinema (album)

Supernino è un nome che sta imponendosi sul mercato e sulla scena con sempre più perentorietà . Sarà  quel sound che, filtrato dal medium di una produzione che sa bene ciò che piace alle major (Supernino è pur sempre “Made in Sony”, con merito), ricorda un po’ Neffa un po’ Quintale convergendo verso quel soul contaminato di elettronica e, perchè no, rock’n’roll che piace a tutti lasciando difficilmente scontento qualcuno. Nove tracce dense, che si arricchiscono della visione ironica della vita di Supernino godendo della collaborazione con nomi del calibro di Willie Peyote e Auroro Boralo.

DR. GIMMY, Personal (album)

Dr. Gimmy si reinventa, mette da parte (solo metaforicamente ed esteticamente) le asce di guerra dei Linea e imbraccia un fucile pieno di fiori a bordo del suo Wolkswagen del ’67 per attraversare le lande desolate della memoria ubriaco – eccome, e va bene così – di nostalgia e sentimento. “Personal” è una confessione che sa di autobiografia, muovendosi tra Animals, Procol Harum, Turtles e tutta quella miriade di cose belle che ammiccano evidentemente ai Sixties; lungo i tredici brani del disco, prende forma il mea culpa e allo stesso tempo l’ultimo j’accuse di una generazione di eterni adolescenti che non hanno smesso di credere ad un mondo migliore di quello che si sono ritrovati a vivere, nonostante i sogni di gioventù.

GRANATO, La camera di Viola

Mi piacciono i Granato, avevo già  avuto modo di sottolineare la cosa nel bollettino di qualche settimana fa. Dark wave e sensazioni gotiche si insinuano tra le trame sospese ed eteree della produzione elettronica di gusto del duo, gravida di una consapevolezza che non permette – per fortuna – a “La camera di Viola” di arenarsi nel mare magnum delle uscite del weekend; il pezzo cresce e lievita in una climax che gode di un’esplosività  musicale complice di un testo ben scritto, potente e caustico, attraverso linee melodiche che ricordano l’estetica dei migliori Matia Bazar. Musica che risveglia, con qualità .

YAYANICE, Coriandoli

Bella scoperta, per me, Yayanice, che in “Coriandoli” fonde urban e pop d’autrice in un brano che trova slancio nella bella vocalità  stentorea ed imprevedibile del duo; il testo respira di un’identità  forte, che nei suoi incastri funambolici e attraverso l’accentuazione intelligente della declamazione rap di Yayanice regala un’espressività  imprevedibile alla produzione di gusto, ricordando il miglior Dutch Nazari e il funk pregno di contenuto del primo Peyote. Insomma, una pregevole alchimia che regala al nostro venerdì d’uscite un nuovo nome da appuntare sull’agenda dei buoni propositi per il 2021.

GROWING FLOW, Fenice

Fa salire la voglia di spaccare i lampioni (con garbo), il nuovo singolo della band Growing Flow: chitarroni, riff convincenti e un muro di suono estremamente anni Novanta che, nelle scelte espressive, ricorda tante cose belle che, oggi, definire “anacronistiche” potrebbe essere riduttivo rispetto al potenziale del progetto in sè. La scrittura non è niente male, anche se manca forse ancora la coesione autorale di un’identità  che pare essere – seppur lanciata nella giusta direzione – in cerca di una propria definizione; non c’è emulazione nei Growing Flow, ma i richiami alla scena emo dei primi duemila (seppur filtrata da un approccio pop da anni Venti) rischiano di limitare l’originalità  della proposta, per quanto ben confezionata e pensata. Aspettiamo – e a questo punto con grande curiosità  – conferme che, ne sono sicuro, arriveranno presto.

LAMETTE, tu mi fai

Piglio Itpop, parole messe nel posto giusto e utile a non spostare troppo, forse, la nostra ansia di novità  confermando però la capacità  del duo di convivere sulla scena mainstream battendosela alla pari con i principali nomi del pop. Non si può certo dire che il progetto non abbia del potenziale, e lo rivela tutto nell’inciso funzionale ed efficace del ritornello di “Tu mi fai” a far da contraltare all’attitude lauriana della strofa; le melodie sono belle, l’intenzione del cantato conferma la volontà  di Lamette di non passare inosservati nell’ennesimo, densissimo weekend di uscite. E, devo dire, che ci sono riusciti.

LE ENDRIGO, Le Endrigo (album)

Disco energico e deciso, quello de Le Endrigo, che mandano al bar la mia voglia di dissociarmi dalla puzza di retorica di cui la linguistica contemporanea sta ammantandosi con un disco che è certamente più  manifesto  di quello pubblicato qualche settimana fa dalla band lombarda, in concomitanza con il cambio di nome (o meglio, dell’articolo che lo precede). Ho sempre pensato – e continuo a pensare – che le rivoluzioni si facciano cambiando le idee delle persone (oltre che quelle personali, come sto facendo io oggi) e non le desinenze finali o gli articoli determinativi del caso; ecco, oggi “Le Endrigo” quanto meno certifica la sincerità  “ideologica” (se ha ancora senso, oggi, parlarne in questi termini) della presa di posizione della band in un disco denso ed emotivo, utile a tirare picconate sullo stantio concetto di machismo che imprigiona gli uomini quanto le donne. Un ottimo lavoro, dal contenuto urgente e lontano dalle derive, ancora, retoriche di cui ogni movimento che si rispetti (sì, perchè un movimento c’è eccome) ama fregiarsi con rivoluzioni linguistiche che, spesso, servono a mettere a tacere la nostra sensazione di inadeguatezza storica ad una rivoluzione che parta dai concetti e termini in significati nuovi, risemantizzando le parole piuttosto che lanciandosi in avventurosi voli pindarici da linguisti improvvisati. L’italiano, qui, c’entra poco: l’obbiettivo – che pare essere ad oggi quello che si prefissano, con quest’album, anche Le Endrigo – devono essere gli italiani, e le loro teste a tenuta ermeticamente stagna. Sopratutto nell’era in cui un laureato – non ce ne voglia Guccini –   sembra contare ben meno di un cantante.

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