Non fidatevi del titolo del sesto album di Andy Stott: è possibile trovare un momento giusto per qualsiasi cosa. Anche per ascoltare le nove tracce del suo nuovo “Never The Right Time”. Seguite per filo e per segno questi passaggi: attendete il calare della notte; chiudetevi in una stanza completamente da soli; infilatevi un bel paio di cuffie nelle orecchie e, infine, lasciatevi trasportare da un flusso di suoni elettronici che vanno dalla techno al trip hop, con piccoli ma evidenti collegamenti a una ambient dalle sfumature sognanti e a una dance music dall’oscura consistenza industrial. Solo così riuscirete a comprendere davvero la vastità e la complessità del lavoro svolto dal dj mancuniano, ancora tremendamente ispirato nonostante una formula ormai non particolarmente innovativa.
Toni plumbei, tremanti melodie ansiogene e atmosfere soffuse di malinconia: “Never The Right Time” è un disco da gustarsi a tarda serata, magari mentre si è assorti nella lettura di un buon libro. A questo punto voi però potreste chiedervi: «Ma come faccio a concentrarmi o a rilassarmi con un sottofondo così cupo? ». Non preoccupatevi, perchè l’angoscia strisciante che permea quasi ogni brano dell’opera non infastidisce davvero mai.
Andy Stott ama le soluzioni minimali, il dub ipnotico e fumoso, gli incastri ritmici vivaci e le sonorità avvolgenti: tutte caratteristiche in grado di regalarci un’esperienza di ascolto stimolante, immersiva e assolutamente non deprimente. Di tanto in tanto, però, si avverte un certo mal di vivere, probabilmente provocato dall’infausto periodo storico. Un velo di profonda tristezza sembra attorcigliarsi attorno alle note desolanti e grigie di “Dove Stone”, mentre con le dissonanze che fanno da introduzione ad “Away Not Gone” si raggiungono livelli di inquietudine degni della soundtrack di un film horror.
Le nubi si diradano quando Stott decide di divertirsi un po’, giocando con suoni inconsueti (il synth flautato e nervoso di “Repetitive Strain”, i bassi sconquassanti di “Answers”) o lasciando campo libero alla voce eterea di una Alison Skidmore che, tra l’estrema delicatezza pop di “The Beginning” e il mood lynchiano (espressione orrenda, lo so, ma avrei anche potuto dire twinpeaksiano o badalamentoso) di “Hard To Tell”, riesce sempre a colpire in maniera positiva. Non un album indimenticabile, ma sicuramente una piacevole aggiunta alla discografia di un artista che ha fatto e potrebbe fare di meglio.