La lunga attesa è finita, finalmente ci troviamo nella possibilità  di ascoltare il nuovo lavoro di Iosonouncane, un album per il quale si erano create grandi aspettative e che era attesissimo, soprattutto per la curiosità  di vedere quale direzione avrebbe intrapreso il sound di Jacopo Incani.

Se con l’uscita di “Novembre” qualcuno aveva creduto che ci saremmo trovati di fronte ad un album di cantautorato per un certo verso più semplice rispetto ai suoi precedenti lavori, ora ci troviamo di fronte a qualcosa di decisamente diverso.
In effetti “Novembre” non ha nulla a che vedere con quanto stiamo ascoltando ed è un brano che Jacopo Incani aveva scritto molti anni fa, nel 2011, e che non aveva trovato posto in “Die”.

L’album è sorprendente e coraggioso, e ha il pregio di permettere diverse chiavi di lettura alcune palesate dallo stesso autore altre forse più nascoste e, come avviene per le opere importanti, lasciate alla sensibilità  del lettore.

La prima cosa che mi sento di dire è che in questo caso non si deve neanche citare l’indie italiano, ormai da anni incartato e vittima di se stesso, perchè l’album ha una dimensione internazionale nel quale possiamo trovare non solo i riferimenti ma anche le intenzioni.

Si deve abbandonare un’attitudine mentale che tende a confinare e chiudere,   eliminare una tendenza che rischia di catalogare l’artista, di cadere in un provincialismo che ci spinge a dare dimensione locale alla musica, questo nuovo album non traccia i confini dell’indie italiano piuttosto li disintegra o, meglio ancora, li ignora.

La seconda considerazione da fare riguarda la copertina dell’album che ritrae un uomo completamente nudo, la cui nudità  è presente ma allo stesso tempo nascosta, un’immagine che svela alcuni aspetti del nuovo lavoro di Jacopo Incan: un’immediatezza sonora, la nudità , che viene celata e dilatata da un meticoloso lavoro di filtri che creano un effetto sfocatura, una lunga gestazione del suono che prevale su tutto.

Prevale anche sul cantato che viene volontariamente sacrificato, rielaborato e trasformato in uno strumento che passa in secondo piano in una costruzione che dilata la forma canzone, e fin qui niente di nuovo, ma che soprattutto sente l’influenza degli ascolti di Jacopo, il jazz, che  trova il punto di unione con la musica magrebina nel quale l’esperienza personale e la tecnica di ogni musicista donano sensibilità  ed emotività .

Non parlo del risultato compositivo ma piuttosto della modalità  tecnica, rispetto a “Die”, in cui la scultura è abbozzata e il fascino viene regalato da un contenuto che si svela violentemente. In questo nuovo lavoro l’aspetto musicale si mostra, mentre il resto si cela, anche nel cantato,   elaborando una specie di grammelot in varie lingue che personalmente avrei portato agli estremi.

Se “Die” era un opera personale e sfrontata, “IRA” ha nell’insieme dei musicisti che lo accompagnano la sua forza, Francesco Bolognini, Simona Norato, Amedeo Perri, Serena Locci, Simone Cavina, Mariagiulia Degli Amori, e soprattutto Bruno Germano che aiutano a sviluppare un opera che potrebbe trovare ed estremizzare nel live un’attitudine e quell’improvvisazione da band jazz molto interessante, anche se la meticolosità  di Jacopo Incani non me ne fa essere troppo convinto.

L’abbandono della forma canzone e il carattere monumentale dell’opera pone l’ascoltatore di fronte ad una scelta che lo impegna ad un ascolto che lascia poco spazio alla distrazione o all’ usa e getta che contraddistingue la fruizione del prodotto musicale attuale. Con la giusta attenzione il lavoro perde la propria complessità  e l’effetto blur diventa sempre meno forte, la forma della canzone si svela nella sua volontà  di esprimersi in una maniera diversa, in cui le voci stesse spesso si esprimono come strumento.

Se nella struttura troviamo questi riferimenti, l’ascolto ne esalta anche altri più immediati,   che vanno dal krautrock, alla prima new wave sperimentale, fino alla trasformazione che negli anni abbiamo ascoltato in Thom Yorke, addirittura nel brano di apertura “Hiver” sembra quasi di ascoltare il dodicesimo brano di “Tranquility Base Hotel & Casino” degli Arctic Monkeys, quindi un lavoro che risente, come dicevo, del panorama internazionale e proprio per questo rappresenta un viaggio ancora da fare, mischiando medio oriente come in “foule” o “hajar”, momenti vagamente melodici come per “niran” e “soldiers”, o un suono elettronico quasi industrial “ashes”   .

In conclusione, Iosonouncane si è trasformato, ponendosi su un livello più alto e offrendo un lavoro corale. Ci troviamo di fronte ad un album che ha bisogno di una band che lo sostenga, sia vocalmente con la presenza di più voci, che dal punto di vista strumentale, un opera apparentemente difficile ma che ad ascoltarla con attenzione,   magari in cuffia,   si svela nella sua assoluta eleganza, un album che sono sicuro avrà  una vita nuova e inaspettata anche nelle sue espressioni live.

Photo Credit: Silvia Cesari