Arrivano addirittura al decimo album i Last Days of April, piccola istituzione del rock alternativo scandinavo e oramai one man band dell’animatore Karl Larsson, in pista da ben 25 anni con la sua creatura. Partiti da un hardcore blando a tinte emo, gli svedesi raggiunsero un mirabile picco di carriera con il gioiellino “Angel Youth” del 2000, un indie-rock orchestrale e stralunato che non sarebbe affatto dispiaciuto a futuri campioni del genere come Arcade Fire e Broken Social Scene.

Nei successivi due decenni la band si sarebbe ripiegata sul suo pop intimista, avvicinandosi, nelle ultime uscite, al country-rock di chiara ascendenza Youngiana. La discografia dei Last Days of April, “Angel Youth” a parte, si è così stabilita su un’ordinarietà  senza particolari meriti nè misfatti. Questo “Even the Good Days Are Bad” esce a distanza di 6 anni dall’ultimo “Sea of Clouds”, forse l’unico vero passo falso, e giustifica parzialmente la persistente esistenza del gruppo.

La title track parte bene: l’impennata di archi introduce l’introversa e tremolante voce di Larsson, che ha modo di sbizzarrirsi anche allo strumento, con soffici arpeggi jingle-jangle e contrappunti più elettrici. Il ritornello è scontato ma si conficca facilmente nella memoria. L’altra vetta è la conclusiva “Downer”, un’estatica ballata che si allunga per quasi nove minuti, morbidi e ipnotici (e io non riesco a non sentirci anche il disimpegnato pop estivo degli Empire of the Sun, rallentato e imbottito di slide guitars e acidi lisergici).

Nel mezzo però ci si assopisce facilmente (e il secondo singolo “Run Run Run” è deboluccio): l’atmosfera è decisamente rilassata, e ne escono brevi bozzetti di country/indie-pop resi in una forma di neo-psychedelia sixties all’americana non dissimile da quanto facevano gli esponenti più frigidi del Paisley Underground. “Anything” emula senza vergogna il folk-pop di Byrds e Simon & Garfunkel. Il garage saltellante di “Alone” è il più grintoso di questi divertissement, e non sarebbe stato fuori luogo sul “The Suburbs” degli Arcade Fire. Ma è l’influenza di Neil Young, il cui fantasma imperversa in lungo e in largo, il debito più sostanzioso che i Last Days of April non fingono di celare.

Tutto sommato, i 35 minuti scarsi di “Even the Good Days Are Bad” sono il giusto compromesso per un gruppo che, lungi dal rilanciarsi ai livelli di vent’anni fa, insiste pervicacemente nella ricerca di un sound che meglio si attagli all’alt-pop discreto e sottotraccia di Larsson, cui certo non fa difetto cultura musicale e talento melodico.