Dovrebbe essere elettrizzante vivere nella testa di Annie Clark, sapere di poter ogni volta giocare a prendere le parti di un progetto musicale, esternando immagini di sè cangianti e opposte,   con la consapevolezza di poter riuscire a domare la propria ispirazione su una nuova sensazione,   riuscendo a non snaturarsi pur nella evidente difficoltà  a resistere al cambiamento. Anzi, facendo del cambiamento così assiduo una forma mentis inglobata all’interno di una si presume ricerca personale, semplicemente un modo di essere tipico di chi si sente a buone ragioni un pò predestinato, un pò quello che faceva Bowie, attraversare il tempo non sentendosi parte del tempo, prendere le forme di un’idea pop per proiettarci la priopria limpida arte, qui ancor di più nello spirito no gender del nuovo secolo di St. Vincent.

Deve essere stato così sexy preparare la campagna di questo “Daddy’s home” con quelle mise da “Charlie’s angels”, con quella iconografia  USA fine anni 70, così provocante e alto tasso erotico, diretta come non mai prima, lontana anni luce da quanto finora così volutamente suggerito nelle sue precedenti produzioni, come se questo desiderio di sfrontatezza possa far pensare ad un ancora maggiore presa di coscienza delle proprie capacità , non uno sberleffo, ma proprio una dichiarazione di intenti, che parte magari dal caschetto biondo e dalle autoreggenti, per arrivare al substrato di queste nuove canzoni.

Perchè quando si parla di St. Vincent, almeno dall’omonimo quarto album ad oggi, corre l’obbligo di ribadire ancora una volta che siamo di fronte forse al massimo che una rock star al femminile oggi possa produrre, ancor più in questi anni difficili, di chiusure e scarso entusiasmo,   una sorta di paladina di un’estetica ma soprattutto di un feeling originale che travalica i generi, di un talento che di volta in volta si presta a reinventare i generi secondo la propria enorme sensibilità  e capacità .

Questo è quello che succede anche in “Daddy’s home”, nato dall’idea non tanto di celebrare l’uscita di prigione del papà  (!!!), ma dal tempo passato a rovistare fra la sua collezione di dischi, fine anni 70, in un omaggio ad un periodo dionisiaco ed idealizzato, dove la dolcezza dei sentimenti si sposava con la psichedelia, la gioia liberata di vivere si infettava con l’amplificazione stupefacente di certe sostanze, la stessa scena  musicale non aveva confini ed i sui territori spaziavano dal black all’hard rock, le strade di New York erano dense di pulsazioni e di frenesia che ora in questo asfittico presente ci sembrano una specie di Eden, un miraggio che non sappiamo neanche più pensare che possa essere veramente esistito.

Deve essere stato proprio frizzante vedere Annie pensare di scrivere qualcosa che potesse ricordare un gioioso miscuglio   di suoni che di volta in volta potessero richiamare cose come Randy   Newman, Stevie Wonder (tanto), Fleetwood Mac, Pink Floyd, insomma una ricca combinazione fatta di soul bianco, r&b, funk e psycho ballate.

Certo, come spesso le succede, a volte si sente un pò la puzza di voler per forza dimostrare la sua superiorità , il dettaglio sovrascritto, quando si pretenderebbe una maggiore apertura dei brani che si vorrebbero un pò più lunghi, come accade da sempre negli album della newyorkese, ma insomma questa è St. Vincent, un’artista in perenne work in progress con se stessa, in tasso di   crescita esponenziale, capace di prendersi gioco di una “Us and them” in “Live in the dream”, al limite del plagio almeno nell’intro, per poi ricondurla col suo guizzo femminile ad una cosa molto personale con assolo da brividi, oppure divertendosi ad omaggiare il french touch   in “Down and out downtown”, quasi un outtake di “Moon safari” degli Air, forse il brano più inebriante del gruppo, con una linea di basso ad alto contenuto sensuale, gran leggerezza della band e Annie totalmente a suo agio in questo clima da conturbamento dei sensi.

Che è poi il clima che si respira nella title track, jazzy e slow funk o in “Down”, un r&b dove emerge lo spettro della Lennox, da sempre punto di riferimento, in in brano con motorick black, e tanto tanto Stevie W. Più   probabilmente sono però i brani pacati quelli più sinceri, come “Somebody like me” o “At the holiday party”,   ballate dove il ritmo cede all’interpretazione vocale di Annie, che marchia e vira il pezzo sulla splendida voce, canzoni più semplici e senza troppi orpelli ma non prive di quel glamour, di cui questo album è pieno come un barile dall’inizio alla fine, di una fascinazione smaccata, conturbante fino a renderlo quasi un feticcio, un gioco di specchi con dentro un’anima, un piacere parodistico che rincorre la bellezza passata con la sensibilità  moderna.

Credit Foto: Zackery Michael