Avvezzo lo è da sempre Ryan nel pubblicare nell’arco di breve tempo una serie ravvicinata di album, testimone di una urgenza espressiva sempre viva ma, pure, di una mancanza di messa a fuoco nella gestione della propria carriera. A breve distanza dall’umbratile “Wednesdays“, da me recensito in toni meritatamente entusiasti non molti mesi fa, il nuovo album riesce nondimeno a confermare quanto scrissi in quella sede ovvero che trattasi di “un talento in ogni caso che a mio avviso, non me ne vogliano i detrattori, rimane tra i più significativi degli ultimi 25 anni , senza alcun timore di esagerazione“.
Consueta, ed ormai nota, facilità di scrittura così come versatilità stilistica caratterizzano “Big Colors”, diviso tra forti richiami al classic rock americano degli anni ’80 (basti citare Tom Petty e lo Springsteen tra “BitUSA” e “Tunnel Of Love”) , power pop sempre eighties e ballate al neon.
Nondimeno, come già rilevato da più parti, emerge l’influenza smithsiana dall’altra sponda dell’oceano , che testimonia ancora una volta come l’influenza esercitata nel panorama musicale odierno dal mai troppo lodato Johnny Marr sia di gran lunga più immanente di quanto si pensi.
Sin dal poker iniziale rimaniamo abbagliati ma anche l’ascolto integrale dell’album, dispiace risultare ripetitivo, ci colpisce per il sorprendente standard qualitativo delle canzoni che Ryan scrive, in una guisa talmente naturale che immagino l’invidia di molti storytellers o songwriters, piegati invece nello sforzo di indovinare melodie o sfornare idee compositive che al nostro paiono scaturire copiose in apparente comfort.
Superiore a “Prisoner”, l’album a cui è più immediato l’accostamento, “Big Colors” ci lascia già in trepida attesa del prossimo album che pare già pronto, a conclusione di quell’annunciata trilogia di cui ne sarà la coda, speriamo degna dei primi due episodi.